Il ritorno dell’Albatro

Il ritorno dell'albatro
“Nonno?”
Geremia si voltò ad osservare chi aveva interrotto il filo dei suoi pensieri. Mmmh, uno dei ragazzi del secondo anno. Doveva essere una faccenda piuttosto spinosa: il gruppo era rimasto indietro, fuori tiro si potrebbe dire, ed osservava parecchio interessato.  A parte due o tre che sembravano semplicemente divertiti dalla cosa. Geremia prese nota del fatto, quindi si rivolse al proprio interlocutore.
“Sì? Che c'è?” Non era il caso di mostrarsi troppo disponibili..
“Ti ricordi la storia dell'Albatro?” Certo che se la ricordava, pensò. Era una bella storia, piantata lì a metà perché le mamme lo avevano rimproverato perché con le sue storie "metteva un sacco di strane idee nella testa dei ragazzini", e "li distraeva dalle cose importanti". Come se loro non avessero mai passato un sacco di tempo ad ascoltare i suoi racconti, ai loro tempi. E non erano neanche venute su così male, dopotutto. Beh, per la maggior parte almeno. Comunque, aveva preferito lasciar cadere la cosa, in attesa che i bambini si facessero avanti a chiedere..  E' anche così che imparano a ottenere le cose a cui tengono, pensava.  E poi faceva scena, cosa che alla storia non poteva che far bene.  Magari era arrivato il momento. O magari era un atra cosa, inutile mettere il carro davanti ai buoi..
“Fammi pensare... Quello che mi aveva presentato la tartaruga blu?”
“Ma no, nonno. Quello che avevi conosciuto in Africa.”
“Sempre lui.. Stesso volatile... Sì che lo ricordo perché?”
“Avevi promesso che finivi di raccontarci la sua storia..”
“Davvero? E quando?”
“L'anno scorso, in primavera..”
“L'ANNO SCORSO!?  E ci avete messo un anno per decidervi?”
“Beh, non è che siamo proprio rimasti lì ad aspettare.. Però questa mattina, abbiamo incontrato un gabbiano. Uno di quelli grandi, con la schiena nera..”
“Un Mugnaiaccio...”
“Sì, uno di quelli.. Beh, aveva il  becco un po'  storto, e mi è venuto in mente l'Albatro. L'ho detto agli altri e allora abbiamo pensato che forse era il caso di farci vivi.”
“E visto che tu avevi parlato per primo, hanno mandato avanti te.”
“Beh' sì, più o meno.. Ma non è un problema, nonno. Cioè, voglio dire: se adesso la storia non te la ricordi più, non fa niente.”
“Certo che me la ricordo!” Geremia si bloccò di colpo. Scaltro il ragazzo, pensò. Crescevano troppo in fretta, questi giovani teppisti. “Facciamo così, allora: prima finite di fare quello che dovete fare. Tutto, intendo. Poi, subito dopo mezzogiorno, quando fa veramente troppo caldo per andarsene in giro, ci troviamo sotto la grande quercia e vediamo. Va bene? “
La proposta fu accolta con un certo entusiasmo e i giovani si precipitarono a portare a termine i loro compiti per essere liberi all'orario stabilito. ‘Bravi ragazzi’ commentò Geremia una volta che se ne furono andati.
Il sole era ormai a picco quando anche l'ultima cicogna fece il suo arrivo. La grande quercia, nel bel mezzo della radura, offriva riparo e refrigerio a tutti. Un paio di asini e un maiale (sottovento per fortuna) si erano portati a ridosso del gruppo dei pennuti, forse incuriositi dall'insolito raduno. O forse erano proprio venuti ad ascoltare. Di fatto le Cicogne erano tra gli animali più antichi e rispettati della pianura, quindi non era improbabile che altri animali ne avessero imparato il linguaggio. Con storni e ghiandaie ad esempio, si poteva conversare. Anche se il loro accento era terribile e gli argomenti limitati.  Per un motivo o per l'altro i corvidi parlavano sempre e soltanto di cibo. Che noia. Comunque ce ne erano almeno due o tre sparsi tra le chiome della quercia, insieme a un gruppo di cardellini, dei fringuelli e chissà cos'altro.
Nonno Geremia, il decano dello stormo, si schiarì la voce e cominciò il suo racconto.
“Molti tra di voi” e con un gesto comprese anche gli ascoltatori di altre specie “si ricorderanno del grande Albatro. L’Albatro Urlatore che incontrai tanti, ma tanti anni addietro, alla fine della terra chiamata Africa.” Annuirono in parecchi. Anche uno degli asini, ma forse solo per scacciare una mosca.
“Per gli altri,” continuò Geremia “basti sapere che l'Albatro è uno dei più grandi volatori della nostra specie. Assomiglia vagamente ad un grande gabbiano, di quelli scuri sopra.  Ma più slanciato. Specialmente in volo, dove le sue grandi ali lo possono tenere in aria per giorni, forse per settimane, senza doversi mai fermare. O almeno così si dice. Non lo incontrerete mai da queste parti, perché ha bisogno delle grandi correnti aeree che oggi ruotano solo intorno ai grandi ghiacci del Sud. E degli oceani: qui ci sono troppe terre che per noi sono casa e rifugio ma per la sua razza sono solo un impaccio.” Si guardò intorno, con calma. Perfetto, erano tutti attenti ed interessati. “E già, signori, l'albatro è una macchina per volare e qui, sulle lande del settentrione non ha né un posto, né un senso. Ma se vi capitasse di incontrarne uno, fuori, sul mare aperto, di passaggio dopo una tempesta o in visita per una sua curiosità, non potreste non rimanere colpiti dalla gravità del suo sguardo, dalla solennità del suo essere. Triste, lo descrivono alcuni.
Per aver rinunciato alla terra aggiungono altri. Beh, quello che conoscevo io aveva tutta un'altra storia da raccontare, che è questa qua.” 
“Stavamo attraversando l'oceano che separa l'Africa dall'America, l’Atlantico per dire i nomi che si usano adesso..” L'affermazione fu accolta con qualche mormorio, anche uno degli asini scosse la testa.  Ma forse solo per scacciare una mosca. “Sì, lo so che sembra impossibile. Ai più ferrati in Geografia, almeno. Ma io l'ho fatto, e più di una volta anche. Ho anche fatto il giro del mondo.” Il mormorio crebbe, ma Geremia proseguì imperterrito “Ma non dimenticate che ero in compagnia di un Albatro. Le grandi correnti dell'aria e del mare erano le sue strade, e sapeva come seguirle per coprire spazi enormi in tempi minuscoli. Gli Oceani, poi, sono cosparsi di isole e isolette dove far sosta e trovare magari anche ristoro. A sapere dove stanno, però, come può saperlo solo chi le abbia sorvolate un'infinità di volte e di più.  Non bastasse, sulle onde circolano un infinità di rottami, ammassi galleggianti, relitti vari. Li portano giù i fiumi e le tempeste dalla terraferma, oppure arrivano da chissadove. Chi può dirlo? Però le correnti marine finiscono per farle girare lungo le stesse rotte, più o meno, e se uno queste rotte le conosce...  A dormire lì sopra resti con lo stomaco sottosopra per tre giorni, ma quando necessità impone.. E per finire, ci sono poi anche le navi degli uomini, pure quelle seguono sempre le stesse vie più o meno. In casi estremi, comunque, potevo sempre appoggiarmi su di lui, che volava solido come una roccia anche con il mio peso sulla schiena.” I mormorii si ruppero in una risata aperta.. “Sì, sì, scherzavo..” confermò la cicogna. “Però le altre risorse le ho usate tutte, navi e relitti inclusi.  Non è stato così difficile come si potrebbe pensare. Rischioso sì, ma difficile no.  Ad ogni modo, dicevo, stiamo attraversando quest'oceano che si chiama Atlantico, e una sera arriviamo in vista di un isoletta come tante, proprio nel bel mezzo del niente. Preciso preciso. Poco più di un ammasso di scogli appena sopra al livello del mare, con subito dietro un prato che poteva andar bene al mio socio per atterrare e decollare.  Siamo appena scesi che lo vedo abbassare la testa ed partire zampettando verso il punto più elevato del prato. Collo dritto in avanti e parallelo al terreno, ali leggermente staccate dal corpo. Aggiungo che è la prima volta che lo vedo camminare per più di tre metri di distanza, non sapevo nemmeno che lo potesse fare. Arrivato in cima alla gobba si volta verso il mare aperto, allarga le ali e punta il becco in alto, testa e collo dritti e tesi come un airone nel canneto.. Non ci vuole molto a capire che quello è un saluto, ma chi stia salutando è un mistero.  Non ci sono altri Albatri in vista. Passa qualche minuto, anche più del necessario, e poi rientra. Con la faccia triste come una giornata di pioggia. Faccio finta di niente e chiedo:
Era un saluto quello, vero? Ma chi.. scusa, non sono affari miei. Però non ho visto nessuno, qui in giro. A parte i gabbiani voglio dire.. Nessuno dei tuoi..”
“No“ mi risponde lui “e qui non ne vedrai mai più. Io sono l'ultimo della mia famiglia. Gli altri se ne sono andati. Tanto, tanto tempo fa.”
“Andati dove?”
“Andati. Morti, forse. Io non li ho più incontrati, e ho girato tutto il globo più e più volte alla loro ricerca.. E anche se sono convinto che prima o poi qualcuno risponderà al mio saluto, questa piccola cerimonia è ormai dedicata solo al luogo dove sono nato. Alla mia isola.” 
“Un'isola piccola, se permetti, per un animale così grande.”
“Ah, ma non è sempre stata così, quest'isola. Quello che adesso ti sembra un banale mucchietto di sassi un tempo era l'ultimo tratto di una possente catena di montagne che scendeva fino al mare, proprio come quella che hai visto al Capo di Buona Speranza dove ci siamo conosciuti. E' anche per questo che amo quel luogo al di sopra di ogni altro. Qui, però, il declivio era morbido, ricoperto da pendii erbosi e rade macchie di cespugli. La nostra Colonia, la famiglia se credi, ricopriva quasi interamente questo versante, ala contro ala, nido contro nido. Beh, a dir la verità si stava piuttosto larghi, invece. Ma quella era l'impressione che ne ricevevi guardandola da qui. Uno spettacolo, credi a me. Io sono nato e cresciuto su questi prati, poco più avanti di qua. Dove adesso non c'è che l'acqua spumeggiante dell'Oceano.”
Di nuovo, Geremia osservò il suo pubblico. Nessuno più parlava o si muoveva, neanche l'asino che adesso aveva un paio di mosche posate sul muso. Immobili anche quelle. Continuò.
“Come voi, anche io avrei voluto sapere subito cosa fosse successo all'isola e alla Colonia. Ma al momento il mio amico non pareva intenzionato a proseguire il discorso e a me non sembrava proprio il caso di insistere. Quindi, per voi che siete ragazzi fortunati, salterò con la narrazione fino ad un paio di mattinate dopo, quando, eseguito il saluto, l’Albatro decise di raccontarmi senza altri preamboli il resto della storia.”
“Devi sapere che per noi Albatri la famiglia è molto importante.” Attaccò. “Fin da piccoli, quando nei terreni-scuola impariamo insieme le cose che ci serviranno poi nella vita da adulti. Le tecniche di volo, ad esempio. O le danze rituali. Cresciamo insieme, in grandi comunità dove un giorno costruiremo anche il nostro nido, con la compagna che abbiamo scelto per la vita e che è sempre una ragazza della colonia. A dire il vero è lei che sceglie, ma a noi maschi piace pensare il contrario. Però, siamo anche dei solitari, e prima di entrare nella vita adulta ognuno di noi parte per un lungo Viaggio. Il Voloingiro, lo chiamiamo..”
“Bel nome.” Commentai.
“Ma forse sto andando troppo avanti. Lascia che faccia un po' d'ordine, dunque. Tra di noi, all'inizio dell'estate australe, quando i venti sono meno forti, è papà che costruisce il nido.  Mamma ci mette un singolo uovo, che poi tutti e due covano per quasi tre lune. Quando il piccolo Albatro viene al mondo rimane lì ancora per un'altra ventina di giorni e quindi resta nei dintorni fino a che non è grande abbastanza per provare a volare. Vale a dire più o meno fino alla primavera successiva. Da lì impiegherà altre tre stagioni per imparare a muoversi nell’aria come si deve, e per tre stagioni vivrà nella città dei nidi guardando e imparando. Infine, partirà per il Voloingiro. Per cinque, sei primavere girerà il mondo, vedrà gente, farà cose. Ma alla fine il richiamo della sua terra diventerà irresistibile, e allora dovrà tornare là dove è nato.
Ogni adolescente che arriva a casa ripete la danza del suo clan così come l'ha assimilata osservando i suoi simili prima del Voloingiro, e, credimi, è sempre un'imitazione talmente patetica da voler morire di vergogna sul posto a pensarci su. Nessuno ci dà peso veramente però, ci siamo passati tutti. E’ bene che tu sappia, comunque, che resta un argomento di cui è poco cortese parlare in pubblico. Ad ogni modo, la danza gli permette di identificare il suo luogo di appartenenza e di farsi riconoscere dalla sua gente. Di rinsaldare vecchie amicizie, di cominciare a farne di nuove. Per altre sette od otto primavere il giovane Albatro non farà altro che volare e tirar fuori dal suo cuore la sua danza personale. Che assomiglierà a quella di tutti, perché è quella del clan, ma sarà anche soltanto sua, sua e di nessun altro.  O quasi. Perché, vedi, ogni cuore nella colonia ha da qualche parte un suo gemello, che batte allo stesso ritmo e che danza la stessa danza. E’ quello del suo compagno per la vita e trovarlo, dicono i saggi, è il segreto della felicità. In fondo il Voloingiro, la danza e tutto il resto servono anche a questo. Qualcuno sa se qui intorno c'è un posto per bere qualcosa?”
Il pubblico si ritrovò improvvisamente sotto la quercia, a migliaia e migliaia di chilometri di distanza a guardarsi un tantino sconcertato..
“Chiedevo” proseguì Geremia “se qualcuno ha visto un posto dove si possa bere qualcosa. Sono ore che parlo, qui, e fa un caldo terribile se non ve ne siete accorti.”
“C'è.. C'è  un ruscelletto dietro alla quercia. Da quella parte.” Rispose titubante uno dei ragazzi.
“Splendido!” dichiarò l'altro. “Vado a rinfrescarmi la gola e torno subito. Voi non ve ne la squagliate, mi raccomando.”
“Così avevo fatto anche io.”  Continuò l'Albatro (o meglio, Geremia al suo ritorno.) “Come tutti gli altri.  Io e la mia compagna avevamo poi nidificato alla Colonia felici ed innamorati per moltissime stagioni, e al momento opportuno avevamo anche allevato un bel numero di giovani. Qualcuno l’avevo anche visto tornare dal suo Voloingiro e metter su famiglia… Poi era accaduto quel che purtroppo poteva capitare a chiunque nella Colonia, e di fatto era capitato a noi: avevamo perso un Uovo.”
Malgrado il caldo quasi tropicale un brivido percorse la schiena di tutti e di ciascuno.
“Per noi non è come per gli uccelletti, con tutto il rispetto per gli uccelletti naturalmente. Un unico  piccolo è tutta la nostra nidiata per un anno intero e anche di più.”
“Capisco.“ Commentò Geremia con più di un filo di commozione nelle voce.
“Lo immaginavo. Me ne venni fuori con la brillante proposta di partire per un viaggio, di abbandonare per un po' quel luogo marchiato da un così brutto ricordo. Ricominciare, in un certo qual modo.  Per carità, avrebbe potuto anche essere una buona idea, se solo mi fossi accorto che la mia compagna era stata colpita dal lutto in maniera molto più seria di quanto avesse dato a vedere. Avrei potuto fare diversamente, forse. O forse no, dopotutto quello che accade è sempre inevitabile, giusto? Non mi accorsi di nulla invece, e quando all'ultimo momento lei si tirò indietro presi la cosa come un capriccio, una follia. Litigammo per giorni, e alla fine io partii comunque, da solo e infuriato.
Senza neppure un cenno di saluto.
Il mio Voloingiro fu lungo e favoloso, direi. Spinto dalla curiosità e dall'orgoglio volai oltre le spiagge di Taprobane, oltre al picco che porta l'impronta del primo degli uomini e salii sul tetto del mondo, dove il Grande Re dà udienza a coloro che riescono a raggiungere la sua reggia irraggiungibile.  E poi scesi giù, giù lungo la spina dorsale del drago che sotto di me sputava fuoco e agitava  la terra. Sorvolai i grandi arcipelaghi del sud, dove sognano le tartarughe blu, e i deserti rossi creati dagli dei durante il jukurrpa. Attraversai in un balzo un oceano immenso, fermandomi per vedere le isole dei grandi vulcani ed i rifugi delle teste parlanti. Accompagnai le migrazioni delle balene per giungere fino al capo dove i ghiacci e le terre si incontrano e gli uomini accendono grandi fuochi per proteggersi dal gelo. Risalii la cordigliera che da lì partiva e superando deserti,  montagne e foreste talmente vaste da sembrare un mare verde arrivai su uno stretto dove un volo d'uccello bastava per comprendere due grandi oceani con un solo sguardo. Proseguii, sopra altri deserti e altre montagne. E altri boschi, e altre foreste senza fine dove gli alberi arrivavano fin quasi a toccare il cielo. Virai verso il sorgere del sole, e attraversai una grande catena rocciosa e poi mari di erba calpestati da mandrie di bovini al galoppo che facevano tremare la terra fin nelle sue fondamenta. Quindi arrivai di nuovo al mare, un mare grigio e tempestoso. Eppure lo stesso che bagnava anche la mia isola migliaia e migliaia di miglia più a sud lo avvertivo dal profumo, dal.. Non so da che cosa, ma ne ero certo.. Allora fui colto dalla nostalgia e decisi di tornare. Nel mio vagabondare avevo attraversato un numero tale di stagioni da non sapere più quanto a lungo avevo viaggiato..
Virai a sud, trasportato dai venti e dalla mia voglia di casa. Viaggiai per giorni e giorni, mentre l'aria intorno a me si faceva più calda e il mare più blu. Arrivai fino a dove dovevo arrivare e mi tuffai verso la terra, con il cuore in gola e un grido di gioia che mi usciva dai polmoni.
Niente. Non c'era niente lì, solo schiuma e onde, schiuma e onde che proseguivano indisturbate il loro cammino. Niente.
Ripresi quota, allargando le mie ricerche in cerchi sempre più ampi. Verificai tutti i riferimenti: le correnti della terra, la posizione delle stelle. I punti al suolo, che non c’era. Niente. Ero nel posto giusto, ma sotto di me c'era solo il niente.
Forse avrei potuto chiedere a qualcuno, pensai, e così mi accorsi che intorno a me non c'era neppure un albatro, non uno. Né della mia razza né di altre affini: in mezzo al niente non c'era nessuno. Poi, quando quasi  non ci speravo più, scorsi questi scogli, proprio quelli su cui siamo posati adesso. Durante la discesa i miei sensi confermarono la mia prima impressione: quella era una parte della Colonia, un brandello del posto dove era nato. Un mucchio di rocce sferzato dalle maree e dalle tempeste, ecco quello che era rimasto. Molto peggio di quello che vedi adesso, il tempo gli ha restituito un qualche tipo di selvaggia bellezza, ma allora non c’erano che sassi e desolazione. Atterrai dove potevo atterrare e cantai il mio saluto cerimoniale. E poi ancora, e ancora, finchè ebbi fiato in corpo. Finchè non crollai a terra, sfinito. 
La Colonia non c'era più.
E nemmeno la colossale catena di montagne che risaliva verso Nord. E non c'era più neanche la grande città dei cinque anelli al centro delle terre interne, con il suo possente tempio che luccicava al sole e la statua del dio al centro. Non c'erano più i suoi abitanti, le loro strane macchine, i loro eserciti ricoperti di metallo. Non c'erano più i fiumi, i laghi, i campi, le foreste. Non c'erano più le scogliere da cui prendere il volo, e gli amici con cui volare. Non c'erano più i miei figli, la mia.. Chiusi quei pensieri così come si chiude un ala, giurando a me stesso di non riaprirli mai più. Certo che c'erano, da qualche parte c'erano ancora. Le colonie non spariscono così, come impronte sulla spiaggia. Dovevo solo ritrovarli, e chi meglio di un albatro avrebbe potuto solcare i cieli alla loro ricerca? Mi alzai in volo senza perdere altro tempo, il viaggio era cominciato.”

Geremia tacque aspettando la domanda che sarebbe seguita. "Li.. li ha poi trovati?" domandò una voce  nel retro. Sembrava venire in direzione degli asini.
“E' esattamente quello che gli chiesi io, anche se temevo di sapere la risposta. "Li.. li hai poi trovati?" domandai.”
“No, amico mio,” mi rispose “per quanto abbia cercato e stia ancora cercando, non li ho mai trovati. Né ho mai saputo per certo quale sia stata la loro sorte. La scomparsa della mia Terra con il tempo è diventata una leggenda tra gli uomini, e proprio tra loro ho raccolto le poche notizie di cui a tutt’oggi dispongo. Si dice che un cataclisma l’abbia inabissata nell'oceano che la circondava. Che un dio geloso l’abbia obliterata con un solo gesto o che uno benevolo l'abbia invece nascosta dalle miserie di questo mondo. Si dice che i suoi abitanti abbiano deciso, per un motivo o per un altro, di spostarla in un altro luogo o in un altro tempo. O che siano stati degli stranieri venuti dalle stelle ad operare lo stesso miracolo. Si dice che il monte che svettava dietro alla città sia esploso come una montagna di fuoco trasformando la terra in polvere e lanciandola nel cielo. Si dicono un sacco di cose, ed il loro contrario anche. Poco o nulla si dice, tuttavia, di eventuali sopravvissuti; umani o pennuti non fa differenza.
Innumerevoli volte gli uomini sono partiti alla ricerca di una soluzione a questi tremendi misteri. E in innumerevoli occasioni io ho accompagnato le loro spedizioni, sperando che i loro inimmaginabili mezzi ottenessero un successo laddove i miei avevano invece fallito. Ma non è servito a nulla...”
“Potete immaginarvi in che stato d'animo mi aveva messo quella conversazione” continuò Geremia in direzione della platea, che annui in un solo movimento. “Che potevo fare? “Cosa posso fare?”, gli chiesi.”
“Puoi aiutarmi nella mia ricerca.” Rispose lui.
“Ma certamente, amico mio” mi offrii all'istante “Dimmi solo da che parte dobbiamo andare e io..”
“No, no, aspetta un attimo.” Mi interruppe. “Non ho un punto da dove cominciare, né una traccia o un indizio da seguire. Posso solo viaggiare, viaggiare e tenere occhi e orecchie aperte, come ho fatto finora. Come abbiamo fatto, a dire in vero, e del tuo aiuto inconsapevole ti ringrazio di cuore. Non avrei potuto trovare un socio migliore, ma..
“Ma?”
“Ma in due direzioni diverse si copre il doppio dello spazio...”
“Vuoi che ci separiamo?”
“Prima o poi ognuno di noi dovrà riprendere la sua strada. Ti chiedo, per quel giorno, di non dimenticare la mia storia. E di essere i miei occhi e le mie orecchie nei luoghi laddove io non sarò con te. Amico.”
Avevo un groppo alla gola da non riuscire a parlare, per cui feci solo di sì con la testa.
“Tutti gli anni” continuò “nel giorno più lungo dell'anno,  io sarò qui su questo scoglio, a ripetere il mio saluto.  Raccontalo a quelli che incontrerai, e dì a loro, ti prego, di raccontarlo ad altri. Cosi che la voce giunga prima poi in tutti gli angoli del globo, fino alle orecchie degli altri sopravvissuti di Atlantide, così si chiamava la mia isola. E nel giorno più lungo dell'anno, prima o poi qualcuno arrivi fin qui a rispondermi.“
La storia era finita, lo si sentiva nell'aria. Ma nessuno era ancora pronto a lasciarla andare.
“E allora vi siete separati?“ domandò uno dei ragazzi.
“Certo che sì. Vedi forse qualche albatro, qui intorno?” Si sentì qualche timida risata. “Ma successe solo parecchio tempo dopo..”
“E dove siete stati, prima?”
“Ah, quella è un'altra storia. Avanti ragazzi, il cielo si è fatto rosso e voi dovreste essere già pronti per andare a nanna. Basta chiacchierare, altrimenti poi i grandi se la pigliano con me.”
“Nonno?” intervenne  un altro, con una certa esitazione...
“Sì?”
“Li hai poi trovati?”
“No, piccolo. Non li ho mai trovati..”
“E lui?”
“Per quel che ne so, neanche lui..”
“E adesso?” era la domanda che stava aspettando.
“E adesso, come ho già detto, ve ne andate tutti a nanna. A meno che..” Fece un’altra delle sue pause ad effetto..
“A meno che?” domandarono i ragazzini in coro dopo qualche attimo di silenzio..
“A meno che non vogliate prima impegnarvi ad aiutarci nella nostra ricerca. Me e Lui, intendo.”
Il coro espose in un entusiastico “Sì”.
“Bene. Allora ascoltatemi attentamente. Voglio che ognuno di voi, uccelli, quadrupedi, insetti e umani che avete letto o ascoltato questa storia ci aiutiate nella nostra ricerca. Voglio che teniate occhi e orecchie aperte, voglio che ognuno di voi tramandi questa storia ad altri. Voglio che raccontiate a tutti che nel giorno più lungo dell'anno, su quel che resta del continente di Atlantide, un grande albatro urlatore lancerà il suo richiamo attendendo che qualcuno gli risponda. E voglio che crediate che prima o poi qualcuno risponderà. Ma da domani, però. Perché adesso è tardi e voglio che andiate a nanna. Da domani ci sarà una cosa in più da fare..”
La storia era finita per davvero, adesso. Tutti quanti si misero nella posizione di riposo che preferivano e presero congedo dalla giornata. Dall’indomani ci sarebbe stata una cosa in più da fare, una cosa importante.
E anche voi, lì fuori, tenete gli occhi e le orecchie bene aperti: i sopravvissuti dell’Atlantide potrebbero essere proprio lì accanto.
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“Il ritorno dell’albatro” by Fabrizio Burlone is licensed under a Creative Commons Attribuzione-Non commerciale-Non opere derivate 2.5 Italia License.
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Illustrazione di Eugenio Bausola