Gli Elefanti del Roseg



Una pausa ci poteva anche stare.

Gregor marciava da quasi due ore sulla neve alta e una pausa ci stava giusta giusta. Scrollò le ciaspole nuove, bella idea quegli aggeggi. Papà gli aveva detto che i primi ad usarle erano stati i selvaggi delle Provincie Francesi della Confederazione del Canada. I cacciatori di pelli le avevano poi copiate, e col passaparola erano arrivate fin lì...  Anche se c'era chi diceva le avessero inventate i Greci, piuttosto,  e chi sosteneva il primato dei Tirolesi. Comunque erano comode. 
Tutto intorno era un trionfo di bianco. Bianca era la valle che aveva risalito. Bianchi erano boschi e cespugli, con qualche spruzzata di verde qua e là su pini ed abeti. Bianchi erano i fianchi delle montagne, bianche le vette, bianco il gigante Bernina, che se era bianco nel pieno dell'estate figuratevi in inverno. Si guardò attorno: non un segno di vita, a parte le sue tracce che costeggiavano il corso del Roseg e qualche pista di cervi o stambecchi. Il sole di mezzogiorno era alto, abbagliante, e tagliava ombre corte, nette e scurissime. Dentro si gelava, al sole ci si inzuppava di sudore. Gregor alzò lo sguardo  fino ad arrivare all'azzurro del cielo, che si diceva fosse più azzurro lì, nell'Alta Engadina, che in qualsiasi altro posto del mondo. Lui qualche dubbio  ce l'aveva, però. Perchè il cielo di Meina, per dirne uno, gli era sembrato dello stesso colore più o meno. E di certo altrettanto bello. Chiuse gli occhi cercando di richiamarlo dalla memoria. Ne erano passati, di anni...

Stava passeggiando lungo il lago, era primavera inoltrata e faceva già caldo. C'era stato un temporale la sera prima, capitava spesso, e l'aria era limpida e trasparente come un cristallo. Il cielo sopra alla sua testa era azzurrissmo, anzi, turchese. Ecco, se non era uguale a quello su Pontresina ci mancava poco... Improvvisamente il ricordo prese vita, come fanno a volte i ricordi, e cambiò direzione. Era un'altra mattina ma quasi lo stesso posto, cento metri più, cento metri meno. Gregor era andato alla stazione per assistere all'arrivo del treno. Non un gran che come evento, ma a Meina non c'era molto altro da fare per un ragazzino della sua età..
Quell'inverno mamma aveva avuto la polmonite. Era stata malissimo, la febbre alta, la tosse, il respiro che andava e veniva..  Il dottore l'aveva guarita, ma si era raccomandato farle cambiare aria per un po', appena possibile. Così, appena possibile appunto, il babbo aveva caricato la famiglia, armi e bagagli,  sul trenino che scavalcava il Bernina e che da qualche anno proseguiva il servizio anche nella stagione fredda. E l'aveva spedita in Italia, a Meina, dove i parenti del ramo italiano della famiglia si erano offerti di dare una mano. Era stato un viaggio entusiasmante, su per le montagne, in mezzo alla neve ed ai ghiacciai, e poi giù a capofitto nelle valli dell'altro versante, in un tuffo da mozzare il fiato. Da Tirano, poi, il cammino era proseguito in carrozza, in treno e perfino in piroscafo. Gregor non riusciva a credere che i laghi italiani potessero essere così grandi. C'erano addirittura le vaporiere ed i traghetti! Peccato che papà avesse dovuto rimanere a casa, ma qualcuno doveva ben mandare avanti la farmacia, no?  Però Gregor era rimasto un po' solo, anche perchè nessuno degli Italiani sembrava interessato a tenergli compagnia e a Meina, come si è già detto, non c'era molto da fare per un ragazzino della sua età.. Mamma cercava di tenerlo occupato dandogli da studiare il doppio di quanto non fosse solita fare a Pontresina, ma con la bella stagione che avanzava rimanere in casa sembrava proprio un delitto. Appena poteva se la svignava per andare a fare lunghe passeggiate nei boschi del Vergante, o magari per uscire sul lago con i pescatori o a vogare con qualcuno dei canottieri in allenamento. E quando non c'era proprio niente da fare, andava a veder passare il treno. Che non era un grande spettacolo, appunto. Da quando era stata aperta la galleria del Sempione tutto il traffico importante correva sulla linea Cusiana, qualunque cosa fosse. Glielo aveva detto il capostazione. Alla stazione erano tutti gentili con lui e la bigliettaia parlava anche un po' di Tedesco, cosa che lo aiutava parecchio con il suo Italiano. Proprio come voleva la mamma. Quella mattina, però, non c'era nessuno in giro per chiacchierare, tutti quanti sembravano presissimi a fare avanti ed indietro dall'area merci.  Il convoglio da Alessandria doveva essere passato da poco, e Alessandria voleva dire Genova. Poteva essere arrivato  qualcosa di interessante.. Dopo un paio di tentativi a vuoto, Gregor riuscì finalmente ad accedere alla parte della banchina che faceva da scalo: in fondo in fondo, praticamente più fuori che dentro alla stazione, il treno aveva lasciato una coppia di vagoni. Di fronte c'erano tre carretti in attesa e tutto intorno una quantità impressionante di persone intente alle operazioni di scarico (dei vagoni) e carico (dei carri).  Il ragazzo si trovò un angolino comodo comodo all'ombra di una tettoia, appena al di fuori dell'area di lavoro, e si mise a guardare. C'erano quintali di pacchi, bauli, rotoli, sacchi e cianfrusaglie dalle forme stranissime. Ma il piatto forte erano le casse. Grandi, piccole, medie, ma soprattutto grandissime ed enormi. Erano quelle a dare i maggiori grattacapi agli operai che cercavano di muoverle. Anche perchè tra di loro imperversava un giovane barbuto vestito come un maggiordomo che sembrava assolutamente certo della loro incapacità di portare a termine il compito assegnato senza danneggiarne il contenuto. Oltre che per le  dimensioni, le casse attiravano l'attenzione anche per le vistose scritte in vernice che le marcavano. Assab, Gibuti, Bardera, Nairobi.. erano chiaramente i nomi dei luoghi da cui erano partite o attraverso cui erano transitate..  Ma dove diavolo erano tutti quei posti? C'erano anche delle sigle in quello che gli pareva inglese, e altri segni ancora che sembravano più ghirigori che scrittura e, per quanto impossibile, davano l'impressione di fluire da destra verso sinistra,..
- Vengono dall'Africa, figliolo. - disse una voce gentile alle sue spalle. – Lo sai dov'è, l'Africa?-
Gregor si voltò d'istinto per trovarsi proprio di fronte a una gran dama che lo osservava divertita. Gregor la conosceva quella signora, cioè sapeva chi fosse. Tutti a Meina lo sapevano, perfino gli stranieri di passaggio. Era la signora di Villa Faraggiana, Catherine Ferrandi in Faraggiana..
- Sì, Signora - rispose, aggiungendo poi senza neppure metterci una virgola in mezzo.. - e cosa c'è dentro?
- Curioso eh? Allora facciamo così, adesso vai a dare una mano a caricare, poi ti fai dare un passaggio fino alla villa che le apriamo insieme. Come ti chiami, figliolo?
- Mi chiamo Gregor, signora.
- Svizzero?
- Sì, signora, si sente?
- Un poco, ma non suona affatto male. E' quasi esotico, direi. Allora, Gregor, datti da fare e ricordati di avvisare a casa che ti fermi da noi.
- Davvero? Posso?
- Per forza, non penserai mica di lasciare il lavoro a metà, vero? Avanti, presentati a quel giovanotto con la barba e dì che ti mando io. Via, via, a lavorare, adesso.. Io vado ad aspettarvi in villa, che per me fa già un po' troppo caldo qui. Non ho più vent'anni..
Ma l'ultima parte della frase si era persa nell’aria, perchè Gregor nel frattempo era già schizzato verso i vagoni, sbracciando e agitandosi come se avesse avuto il fuoco addosso per farsi notare dal tizio con la barba.

In mezzo alla neve, a chilometri e anni di distanza, Gregor spazzò con il bastone la cima di una roccia per accomodarci la pelle che gli avrebbe fatto tavola e da sedile.  Pescò dalla bisaccia che portava a tracolla del pane, del formaggio, un paio di pezzi di carne secca e mezza pignatta di  capuns, disponendo il tutto sulla mensa improvvisata. Un banchetto da signore, mancava solo la torta di Noci della mamma. Per quella avrebbe dovuto aspettare fino al rientro. Però c'era una fiaschetta di Kirsch, proprio quel che serviva per riscaldarsi lo stomaco. Quindi si accomodò pure lui, attaccando il pranzo e riprendendo il filo dei ricordi.

Dalle casse era traboccato un numero impressionate di manufatti, trofei di caccia, armi, attrezzi, pelli, tappeti, vasi e vasellame. E poi tende, una vasca da bagno, stoviglie da campo, aste, picchetti, materiale per imballaggio, strumenti da geografo, disegni, dipinti, libri e quaderni e altro ancora. Un’intera spedizione di caccia, insomma. O di esplorazione. Il carico era quindi stato ordinatamente accatastato nei magazzini della villa, che erano comunque già colmi di altro materiale bizzarro proveniente da chissà dove. Prima o poi il barbuto naturalista del Museo Etnografico e di Storia Naturale a cui buona parte della magione era stata adibita avrebbe trovato il tempo per catalogare ed esporre il tutto. Se solo fosse riuscito, prima, a quietare il piccolo Svizzero che la Signora gli aveva messo alle costole. Quello che affascinava di più Gregor era senz’altro la collezione di animali: le grandi vetrine del Museo mostravano orsi, tigri, gazzelle, antilopi leoni e dozzine e dozzine di altri animali mai visti e neppure immaginati. I trofei esposti sulle pareti, poi, erano così tanti e così grandi da chiedersi come facessero i muri a tenerli su tutti. Il naturalista aveva tentato di tener testa alla tempesta di domande che il ragazzino gli scatenava contro ad ogni passo, ma l’impresa si era presto rivelata senza speranza. Allora si era messo a raccontare invece di rispondere, e così, senza volerlo, aveva fatto la magia. Aveva raccontato delle savane del Serengeti e dei vulcani della Dancalia, delle coste selvagge del Mar Rosso, dei deserti dell’Eritrea, delle giungle dell’India e delle foreste del Sarawak. Degli innumerevoli luoghi lontani che aveva conosciuto dai racconti del Capitano Ferrandi e di Alessandro Faraggiana, il figlio della Signora, e che prima o poi avrebbe visto coi suoi stessi occhi, su questo ci si poteva scommettere. Come un naturalista mannaro, con il  morso aveva trasmesso la sua maledizione, e Gregor, in quel preciso momento, si era ammalato anche lui di Natura. Non ne sarebbe più guarito.

Di nuovo in mezzo alla neve, il giovane impacchettò i resti del suo pasto e li ripose nella bisaccia. Non era difficile immaginare il motivo per cui il filo dei ricordi si fosse srotolato fino a Villa Faraggiana. Dopotutto il sentiero che lo aveva portato a quella radura innevata in vista del grande Bernina partiva proprio da lì.
Rientrato a Pontresina, Gregor aveva diretto la sua vita sulla pista tracciata dai grandi esploratori; Livingston, Stanley, Burton, Speke, e, naturalmente, Ugo Ferrandi e Alessandro Faraggiana. Ma i tempi ormai erano cambiati. C'era stata una guerra mondiale intanto, e l'Europa era ancora tutta da rimettere insieme. L'interesse nei confronti delle grandi esplorazioni era svanito come neve al sole: glorie e fortune di uomini e nazioni si costruivano altrove. Erano nati miti nuovi, nuove frontiere, c'era la tecnologia, il petrolio, l'automobile, l'aeroplano..
Però.. Però si poteva pur sempre viaggiare con i propri mezzi, e vedere, studiare, imparare, scrivere. Esplorare, insomma, anche se nei libri di storia ormai non ci si entrava più passando da quella parte. Per qualche tempo Gregor riuscì ad intraprendere almeno una spedizione annuale, una gita come diceva lui. Alle montagne della vicina Italia, oppure verso le isole della non troppo distante Grecia. O anche sulle Sierras della lontana Spagna o tra le foreste tenebrose dei Balcani. Una volta fu addirittura fino alla remotissima Somalia: Mogadiscio, Brava, Chisimaio, ma soprattutto l’interno, verso Bardera e oltre. Verso il cuore dell’Africa, finalmente. Ma l’Europa stava già preparando un’altra guerra, e i viaggi diventavano sempre più difficili da organizzare, i luoghi sempre più ostili.. Più per necessità che per scelta, Gregor iniziò a guardarsi intorno, ad osservare le sue valli.  E scoprì con stupore che gli era più facile reperire scienza e letteratura sulle giungle del Borneo che sulle foreste dell'Engadina. Sui monti della Luna che su quelli che poteva vedeva dalla soglia della farmacia.

- Beh, e che c'è di strano? - gli disse una volta il padre - quello che c'è qui intorno è qui da vedere, non da leggere.
E allora capì di aver trovato il suo territorio da conquistare, il suo pezzo inesplorato di universo.

Da allora, appena papà e farmacia gli lasciavano un po' di tempo libero afferrava  taccuino, matite e binocolo (era perfino riuscito a procurarsi un modello della Carl Zeiss con il nuovo sistema di lenti a prisma inventato dall'Italiano Ignazio Porro) e correva giù in qualche valle o su per qualche monte. O si appostava dentro ad un bosco o sulle sponde di un torrente o di un laghetto per osservare, scrivere, disegnare. Nel giro di pochi anni era diventato  una presenza talmente consueta nel paesaggio che la gente si preoccupava quando non lo vedeva. E quando lo vedeva non poteva fare a meno di fermarsi a scambiare due parole. “Ma cosa vuoi trovare qui?”, gli chiedevano “che a parte due capre un passerotto e una marmotta qui non c'è nulla?” 

- Gli Elefanti, naturalmente - rispondeva lui, mostrando schizzi e appunti che raffiguravano di  tutto tranne che quelli.
- Elefanti? Ma ti manca qualche rotella ragazzo? -  ribattevano gli altri. - Qui non ci sono Elefanti. Neanche al circo. Devi andare in Africa se li vuoi vedere, gli Elefanti…
- E chi lo dice? - insisteva Gregor – Se anche nessuno ne ha mai visti, non vuol dire per certo che non ce ne siano. E poi in Africa ci sono stato: a trovarli lì sono buoni tutti.... e io invece  continuo a cercarli qui. Quando ci si mettono gli Elefanti possono essere proprio difficili da vedere, sapete? E comunque,  di già che guardavo ho fatto caso che c'è ben più  di quello che dite, qui intorno… Questo lo conoscete vero?  - domandava, offrendo magari il ritratto di un paio di capre o un di passerotto o di una marmotta.
- Certo. - rispondevano gli altri, divertiti.
- E questi li avete mai visti? – quattro batuffoli di piume in un nido, quattro piumini da cipria grigio screziati, con due enormi occhi gialli che puntavano dritti dritti fuori dal foglio. A quel punto l’osservatore di solito pigliava in mano il disegno girandolo un po’ a destra e un po’ a sinistra come a cercare il verso giusto. O faceva lo stesso con la testa, il che era ancora più buffo.
- Sono pulcini di gufo nel nido. – continuava Gregor - Carini, no? E questo?
Poteva essere un picchio muratore che scendeva un tronco a testa in giù, o una salamandra pezzata, una trota nella sua polla, un gallo cedrone, un piviere dorato di passo, una famiglia di cervi, uno stambecco in posa su di un crinale, una qualunque delle mille meraviglie che la gente incontra ogni giorno per strada senza mai vedere veramente. La storia non era mai proprio la stessa, ma neppure troppo differente.
Qualche volta, di tanto in tanto, qualcuno si fermava a guardare, ad ascoltare, a chiedere. Era solo un inizio, ma da qualche parte si doveva ben iniziare.
Con il tempo, Gregor era diventato per tutti Gregor degli Elefanti, l'ultimo dei cacciatori di pachidermi dell'Engadina. E in fondo questo non gli dispiaceva.

E neanche gli dispiaceva, adesso, di essere finalmente arrivato a destinazione. Perché camminare nella neve è bello, ma stanca.

Levato un guanto, non si poteva fare altrimenti, rimestò per qualche istante nella bisaccia per cavarne poi fuori un sacchetto di velluto rosso fiammante.  Lo agitò nell’aria limpida come un saluto od un segnale: le sentinelle avrebbero capito. Un guizzo alla sua sinistra, troppo veloce per esserne certo.. Un altro. Questa volta riuscì a seguirlo fino alla betulla di fronte. Erano loro. Si avvicinò lentamente, con cautela. Pescò nel sacchetto e quindi porse nel palmo della mano aperta quanto aveva pescato: pinoli. E che pinoli, perbacco, non la solita merce che si ricavava dai Cembri della Valle. Pinoli di prima qualità, arrivati dritti da Pisa tramite amici ed amici di amici. Un uccellino si staccò quasi immediatamente dal ramo da dove stava evidentemente seguendo lo svolgersi degli eventi. Proprio in fronte alla mano protesa si fermò a mezz’aria. Sembrava uno di quei microscopici volatili sudamericani di cui aveva letto tante volte sui libri, i Colibrì. Questo era forse meno brillante, dopotutto era solo una Cincia Bigia, ma la cosa restava altrettanto spettacolare. Trovato l'angolo di attacco ideale, si suppone, la Cincia atterrò sulla mano infreddolita di Gregor e passò ad aggredire i pinoli. Gregor sentiva chiaramente le unghiette dell'uccellino fare presa sulla sua pelle, una specie di leggero pizzicore, un solletico quasi. Dopo pochi istanti arrivò un secondo ospite, che si piazzò sul lato opposto al primo e prese a sua volta a rovistare nel mucchio. Ancora una Cincia Bigia, ma questa volta del tipo alpino, hanno delle piume più chiare tra le remiganti secondarie. A metà dell'ala, in Italiano. Ogni tanto si interrompevano, e si guardavano di brutto. Tentavano anche di scacciarsi a vicenda con qualche mossa e contromossa di lotta uccellesca, o soffiandosi contro come i gatti. La contesa terminò in un lampo con l'arrivo di una Cincia dal Ciuffo che sfrattò clamorosamente i due avventori. Per lasciare posto, qualche istante dopo, ad un'altra coppia mista. Pur muovendosi con la velocità del fulmine le bestiole non sbagliavano mai. O quasi. Individuavano proprio il pinolo che volevano in mezzo a tutti gli altri, chissà che cosa aveva mai di differente, atterravano, beh, ammanavano, acchiappavano il semino desiderato e tornavano sul rametto di provenienza per la consumazione. Il tutto in meno di quello che ci voleva per dire Jungfraujoch. A forza di tentativi e pazienza Gregor era però riuscito a far prendere confidenza ad un buon numero di Cince Bigie, More, dal Ciuffo e Cinciarelle che adesso si soffermavano sul suo palmo anche più dello stretto necessario. Cinciallegre e Picchi Muratori invece erano rimasti piuttosto diffidenti e preferivano che i semi venissero posati a terra o su qualche appoggio. Ma anche ad un solo metro di distanza, il che assegnava un posto in prima fila e lasciava le mani libere per disegnare. Però era meno divertente.
Due secche detonazioni in lontananza interruppero bruscamente il corso dei suoi pensieri. Cacciatori. Una passione che lui non sarebbe mai riuscito a comprendere. Sulla valle scese un silenzio impressionante mentre le Cince, incluse quelle sul suo palmo, restavano in allerta, a testa alta, nervose. Poverine, pensò Gregor, nella loro visione del mondo lo schianto di uno sparo deve risultare un fenomeno a dir poco terrificante.
Poi, improvvisamente, il silenzio fu rotto  dal rumore di centinaia e centinaia di piccole ali che, tutte insieme, battevano l'aria. Tutti gli uccelli del mondo, in un solo balzo, si erano alzati  in volo per dirigersi verso il Roseg e, quindi, verso il fondovalle. Abbandonato nel boschetto deserto toccò a Gregor di sentirsi nervoso. La montagna gemette. Un suono basso, una vibrazione al limite dell'udibile, l'eco di uno schiocco, di uno schianto colossale che arrivava alle viscere prima ancora che alle orecchie. Fu investito da una ventata fredda che durò solo un istante.
Gregor era nato da quelle parti, e sapeva quello che stava per accadere. Sollevò lo sguardo verso il canalone che incideva il fianco della montagna e, come si aspettava, vide la valanga scendere, inarrestabile, irresistibile. “Scheiße!” esclamò, e non è una bella parola. Tutto intorno c'erano solo betulle e sottobosco, doveva essere un tracciato di sfogo abituale e nient'altro faceva in tempo a crescere tra una botta e un’altra. Ma larici abeti non erano lontani: ci mettevano anni a prendere posto e se le altre volte l'avevano scampata forse ce l'avrebbero fatta pure questa. Guadagnò terreno, mentre il rombo della massa di neve che scendeva si faceva sempre più potente ed il vento di caduta più forte. Poi, quando mancavano solo pochi metri al bosco, si rese conto di avere perso la corsa.

Gregor! Pensò Herr Schellenberg e fu fuori nella piazza che il rombo della valanga non si era ancora del tutto allontanato.  - Dove? - domando' bruscamente a un compaesano che sembrava godere di un orizzonte più sgombro del suo.
- Su per il Roseg - rispose quello, - Non molto grande, ma vicina. Prima del Chalchagn, o subito dopo.
- C'è Gregor in val Roseg. -
- Il borgomastro! – comandò l'altro senza nemmeno pensarci su – Vai ad avvisarlo che io  chiamo la squadra. Ci vediamo alle slitte! -
Pontresina era un borgo di piccole dimensioni, ma dopotutto aveva una farmacia, una scuola con ben due maestri, una chiesa Protestante, una Cattolica e anche una Anglicana. E una stazione dei pompieri, dotata perfino di una carro pompa Rosenbauer a mano. Bene,  proprio di fianco alla campana di chiamata per la brigata dei vigili del fuoco volontari, ce ne era una più piccola per una squadra più piccola: quella del volontari soccorso valanghe. Quando Martin Schellenberg si fiondò nuovamente fuori dalla farmacia, con tabarro e scarponi in mano,  quella campana stava già suonando. Incontrò il borgomastro davanti all'ingresso del municipio, anche lui che si stava precipitando alle slitte. - Gregor! - gli gridò, continuando la corsa.
- Sicuro? - domandò.
- Me lo sento.. -
E questo fu tutto quello che c'era da dire, almeno fino al punto di ritrovo. Lì, altri quattro uomini li stavano aspettando sulla slitta della brigata. I due balzarono a bordo mentre il mezzo già si muoveva.
- Gli altri arriveranno, per il momento ci siamo solo noi. - avvisò il tizio della piazza.
- Ci faremo bastare. - rispose  Martin Schellenberg.
Individuarono  la traccia della slavina pochi minuti oltre l’imbocco della valle. Era davvero piuttosto vicina, scendeva da una gola poco prima del pizzo Chalchagn ed arrivava a coprire parte del letto del Roseg che stava già provvedendo a spazzare la sua strada attraverso la massa nevosa. La pista che correva a lato del torrente era rimasta praticamente sgombra.
- Vedrai che sarà un giro a vuoto. -  Anticipò il borgomastro spezzando il silenzio. -  Gregor sa il fatto suo.
- Speriamo, ma la montagna si prende chi vuole e..
- Là, delle tracce! - Interruppe il vetturino - ma di che accidenti sono?
- E' Gregor! - Esclamò il farmacista - Sono di ciaspole, racchette da neve.  Me le manda un amico dalle Americhe. Si mettono ai piedi e...
Questa volta si interruppe da solo. Le tracce si scostavano dal torrente e risalivano verso la montagna. Fino a sparire proprio sotto alla slavina.
- Muoviamoci! - incitò scendendo al volo dalla slitta. Afferrate le pertiche, la squadra attraversò il Roseg di corsa e raggiunto il fronte nevoso incominciò a lavorare di sonda. Era passata più di mezz'ora da quando il rombo della valanga aveva fatto tremare le vetrine della farmacia. Se Gregor non avesse avuto a disposizione una camera d'aria o un qualunque condotto verso la superficie la loro corsa sarebbe risultata già abbondantemente vana. Martin non ci voleva neppure pensare. Konrad e i cani non arrivavano, e per quanto piccola quella slavina era enorme per una squadra di sei persone. Bisognava sperare che Gregor fosse riuscito a galleggiare sul fronte d'impatto, tutti quanti in montagna dicevano di saper come fare, ma erano più fanfaronate che altro.  E che non avesse riportato traumi seri o, peggio, fratture. Che nella iella, in totale, fosse pure stato fortunato, e allora poteva esserci ancora un margine di speranza di quindici, forse venti minuti. Poi sarebbe stata solo la volontà di Dio. Il farmacista affondava la pertica nella neve come un forsennato, la estraeva e la affondava di nuovo, senza mai incontrare nulla. Allora la affondava di nuovo, e di nuovo, insensibile alla fatica, al freddo, al dolore che stava risalendo le braccia.
- Martin MARTIN! Fermati! Ascolta...
Ma chi era a parlare? E che voleva? Perchè non riusciva a muoversi?
-  Calmati, ascolta.. - si sentì ripetere..
La frenesia che lo aveva afferrato iniziò finalmente a dissolversi, abbandonandolo scosso e confuso sulla neve scesa dal Chalchagn. Due dei suoi compagni lo stavano trattenendo..
- Ascolta...
 Che c'era da ascoltare? Non si sentiva nulla, solo un po' di brezza tra gli alberi, lo scorrere del torrente alle spalle e i consueti richiami degli uccelli. Che erano un baccano della miseria, però, e che avevano mai quelle bestiaccie? E perchè sembrava venire tutto da un'unica direzione?
- Ma.. ma cosa.. che c’è? – balbettò alla fine..
- E' quell'albero laggiù, guarda: ci sono tutti gli uccelli del bosco, là. E stanno chiamando.
L'idea si fece largo nella sua mente con la rapidità e la potenza di un fulmine, spazzando via incertezza  e fatica come un temporale.
- Sono quelli di Gregor! - esclamò - Lui è là sotto, è là sotto! Andiamo! - e partì come un proiettile, lasciandosi indietro squadra e domande. Attraversò in qualche modo il corso della slavina e risalì faticosamente lungo il fianco opposto, lo sguardo sempre  fisso sulla neve a cercare  un segno, un indizio, un qualcosa... E alla fine lo trovò. Seminascosto da una piccola gobba nevosa c'era un sacchetto di velluto, un sacchetto di velluto rosso fiammante. Gli uccelli facevano la spola dall'albero a quello e da quello ad un altro punto un po' più in alto, dove però non si riusciva a scorgere assolutamente nulla,
- Prendi quel coso rosso - ordinò il borgomastro  al farmacista - Gregor lo vorrà indietro..  -  quasi automaticamente Martin rispose a quanto gli era stato richiesto e si avviò al recupero. Gli altri proseguirono per sondare la seconda zona puntata dai volatili: andava fatto prima che Martin capisse l'antifona, perchè le possibilità che Gregor fosse proprio lì sotto erano poi quelle che erano. E che fosse vivo, anche meno. 
Al primo affondo la pertica non incontrò nessuna resistenza. Nemmeno al secondo, e al terzo, e..
- E' qui! E' Qui! - Gridò l'uomo alla sinistra. - E' qui! 
In un attimo furono tutti sul posto a scavare, Martin con il sacchetto rosso in mano. 
- Bravo ragazzo, sei riuscito a stare in alto, bravo.. - borbottava uno
- Ma che fortuna! Che fortuna! - Aggiungeva un altro..
- Resisti, resisti! Ancora un attimo e sei fuori..
Il ragazzo era vivo, e anche cosciente più o meno. Lo adagiarono su una coperta e presero a frizionarlo, qualcuno passò una fiaschetta di kirsch. Gregor riuscì a mandarne giù una buona sorsata e, forse  per quello o forse per altro, cominciò piano piano a riprendersi..  Lo caricarono sulla slitta  lanciandosi quindi verso il paese alla massima velocità possibile, tutti insieme. Ridendo, scherzando, dandosi delle gran pacche sulla schiena e promettendosi sbronze colossali.
- Perchè ci avete messo tanto? - domandò Gregor quando le forze gli consentirono di farsi contagiare dall'allegria generale..
- Perchè ci siamo fermati a guardare gli elefanti, figliolo. - rispose Martin. - Ma vedremo di fare più in fretta, la prossima volta.

Era tornato l'inverno, o meglio, era sulla via del ritorno. Due degli uomini della famiglia Schellenberg stavano disseminando di pinoli il fondo di una piccola mangiatoia appesa al ramo più basso di uno splendido abete. Non molto distante da lì uno di loro era stato preso dalla valanga e l'altro aveva scavato per tirarlo fuori.
- E questa è l'ultima - dichiarò il ragazzo. - Chissà quanto ci metteranno a spazzarle via, questa volta..
- Ci metteranno quello che ci metteranno - rispose il padre - ma finchè Pontresina avrà una farmacia ed un Borgomastro, d'inverno qualcuno salirà quassù e riempirà le mangiatoie di semi e di frutta.
- Anche se, credimi, è più divertente fare così.. – Gregor si versò nel palmo il solito mucchietto di pinoli. La prima cincia arrivò talmente in fretta da riuscire quasi ad infilarsi dentro al sacchetto rosso. La seconda tardò solo di pochi secondi, seguita da una terza.
- Molto più divertente.

Ancora oggi, viandante, ti dovesse mai capitare di attraversare la valle del Roseg, non dimenticarti di portare con te un sacchetto di pinoli da porgere alle cince. Se saranno buoni, ma proprio molto buoni, forse potrai anche convincerle a raccontarti la storia di Gregor degli Elefanti. Loro la ricordano ancora.



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Illustrazione di Eugenio Bausola