Pranzo di Natale


Il Pettirosso fece due salti in avanti, con circospezione. Balzò sul bordo della mangiatoia, e poi giù, sul ripiano. Con circospezione. Non era il primo anno che veniva a svernare in quel giardino. C’era una siepe bella spessa, anche quindici o venti passi in certi punti, fitta fitta e che andava avanti in ogni direzione fin dove si poteva vedere, e anche di più.C’erano piccoli tratti di erba dove ci si poteva piazzare per prendere il sole, quando faceva presenza. C’erano parecchi cespugli, e piante, alcune con su un sacco di cose buone da mangiare e altre no, solo lì da guardare. Quando arrivava lui erano già spoglie, ma l’impressione era che dovevano essere molto belle, in stagione. Un posto decisamente gradevole, tutto sommato: probabilmente era per quello che ci passava così tanta gente. Andavano, venivano, si scambiavano qualche voce quando si incontravano, e poi via. Nessuno si fermava, a parte i bambini qualche volta. Quando le giornate erano calde li vedeva rincorrersi, chiamarsi in quei lori curiosi linguaggi, azzuffarsi sul prato. Fare cose da cuccioli, insomma. Poi, quando scendeva la neve, si precipitavano fuori, più gonfi e colorati che mai, per rotolarsi nella coltre bianca, sfidarsi a palle di neve, ammucchiarla fino a formare goffe copie di loro stessi. Altre cose da cuccioli, insomma.  Non che fossero tutte rose e fiori, tanto per rimanere in tema. Proprio i bambini costituivano la seccatura maggiore. Quando decidevano di coinvolgerti nei loro giochi diventava decisamente difficile svicolare. Anche perché con quell'altezza da terra sembravano fatti apposta per l'inseguimento dei pettirossi. Poi c'erano i cani. Sempre più numerosi, chissà perché… E appena oltre la siepe, il traffico, un numero impressionante di persone ancor più frettolose e decisamente meno amichevoli, e altri cani, e gatti, e chissà cosa, ancora. Si diceva perfino un Falco Pellegrino, figuratevi. Qui, nel giardino, invece si stava veramente bene. E quando incominciava a fare freddo, ma proprio freddo freddo, come per magia compariva, su al primo piano, in un angolo di uno dei balconi centrali, la mangiatoia. Così almeno la si chiamava tra pennuti, nessuno sapeva esattamente quale fosse il nome che gli avevano attribuito i suoi costruttori. In pratica, una piccola piattaforma coperta che ospitava diversi altri contenitori appesi o sul fondo. Come quello su cui stava zompettando proprio in quel momento, per intenderci.
Nella mangiatoia, non si capiva bene perché, gli umani mettevano a disposizione cibi e bevande di ogni tipo, a volte delle autentiche, leccornie.  Lui l’aveva trovata quasi per caso, i pettirossi non frequentano spesso i balconi. Ma visto che l’aveva trovata, quando la mollava, ormai?  Si guardò nuovamente intorno. Ancora niente. Meno male. Incominció a becchettare qua e là, mancava poco più di un'oretta al tramonto, meglio non indugiare oltre.

“Ciao, bel ragazzo.”
Il Pettirosso si congelò sul posto. Erano arrivate. Come aveva fatto a non vederle!
“Ciao, ragazza. E le tue sorelle dove sono?” rispose, mostrando una sicurezza che non era affatto sicuro di avere.
“Qui, per esempio.”

Quella che si era appena fatta sentire era una cinciarella, come la prima. Ora, questo mi sembra un buon momento per uno spiegone. Tutti quanti, chi più e chi meno, sanno come è fatto un pettirosso. Fotografato, dipinto o disegnato, ripreso in un documentario, o magari perfino incontrato di persona in un parco o in un giardino, a tutti, chi più e chi meno, sarà capitato di vederne uno. E’ una presenza piuttosto comune, quasi iconica.
Ad ogni modo, per i pochi sfortunati a cui invece non fosse mai capitato, stiamo parlando di un uccellino grosso quanto un passero (giusto per fare un paragone), di colore genericamente marroncino e grigiolino sulle parti basse. Ma con un brillante, spettacolare petto rosso-arancione, e anche buona parte della faccia a dire il vero. Vive prevalentemente sul terreno, un po’ come i merli, e ha un richiamo che assomiglia all’urto tra due biglie metalliche, tipo quelle che si fanno girare tra le dita contro le stress per intenderci. Il canto vero e proprio invece è molto più articolato e a me fa venire in mente il disgelo e la primavera. Qui in pianura, però, arriva in inverno, e quando fa freddo, ma tanto freddo, gonfia le piume per isolarsi dal gelo esterno finendo per assomigliare ad una palletta di sofficità in persona (si fa per dire) con uno sgargiante petto rosso.
E veniamo ora alla cinciarella, che sotto parecchi aspetti è invece tutto un altro paio di maniche. Per prima cosa, è quasi del tutto arboricola, quindi per vederla bisogna stare a testa in sù, come i sognatori o i birdwatcher. Ma i sognatori o i birdwatcher veloci però, perché le cinciarelle non stanno mai ferme un secondo, e quando si muovono si muovono con una rapidità tale che nemmeno l'occhio di Terminator riuscirebbe a starci dietro. È più piccina del Pettirosso, anche se di poco. Ma su queste scale anche poco vuol dire molto. E per finire, è anche meno comune. In totale, è ragionevolmente un oggetto sconosciuto o giù di lì per la maggior parte del genere umano, quindi meglio partire subito con la descrizione.  Come dicevo, è piccolina: una dozzina di centimetri scarsi dalla punta del becco a quella della coda. Il dorso tira sul verdone, per poi girare verso il blu man mano che scendiamo verso il fondoschiena e ancora più giù. Ma se il retro e piuttosto mimetico, il fronte è un'esplosione di colore. Di giallo, per essere più precisi, dal sottocoda al petto, a volte con un elegante riga nera longitudinale non troppo evidente. E non è finita, perché risalendo, appena sotto al becco, troviamo un piccolo bavaglino nero portato come una cravatta od un papillon, e sugli occhi una specie di mascherina di Zorro che incornicia due guanciotte candide come la neve. E terminiamo con la capigliatura, nel suo equivalente uccellesco ovviamente, che nel nostro caso è di un bel blu elettrico, portato con una certa eleganza. Eccola qui la nostra cinciarella, quindi: una cosina da niente con un piumaggio festaiolo, quasi un uccelletto ornamentale. E invece no, perché la cinciarella, nella sua categoria, è anche un'autentica teppista. Una bestiaccia, che non molla mai e sa farsi valere contro avversari di qualunque dimensione e natura, compresa la nostra, se serve. D'inverno, poi, abbandonata la sua natura solitaria e territoriale, si riunisce in vere e proprie bande, che a vedersele venire incontro fanno proprio paura.
E a questo punto possiamo anche riprendere la nostra storia, a partire da   un'altra cinciarella che compare quasi dal nulla per farsi sentire.

“Ma anche qui.”
“E qui.” Aggiunse una terza.
“Siete parecchie, oggi… Sei? Sette?”
“Sette. Un bel numero, non credi?”
“Così si dice..”
“Otto invece mi sembra un numero brutto.” Commentò una delle nuove arrivate.
“Anzi, bruttissimo. Specialmente se la mangiatoia è una sola.” Aggiunse un’altra.

Il pettirosso rimase un attimo indeciso sul da farsi. Quindi, senza proferire parola (o equivalente) spiccò il volo per planare subito dopo verso il prato del giardino e poi la siepe che aveva eletto a sua residenza per quell’inverno. I Pettirossi non sono certo animali da farsi mettere le zampe in testa, ma con quelle Cince c'era solo da rimetterci. Autentici bulli, ecco cosa erano. L'inverno fin lì era stato quasi tiepido e c'era ancora cibo in abbondanza un po’ dappertutto. La mangiatoia, poi, era sempre strapiena, e se faceva tanto di vuotarsi i proprietari (bontà loro) la rifornivano in giornata. Non c'era bisogno di fare i prepotenti. Lo facevano tanto per farlo, perché era così che venivano su, perché era l'unico modo che conoscevano per non sentirsi piccoli piccoli, come francobolli. Inutile farsene un cruccio, sarebbe tornato alla mangiatoia più tardi, tanto non si fermavano mai a lungo. E magari ci avrebbe anche incontrato il merlo o il codirosso, gente simpatica di ben altra pasta. L’ideale per fare quattro chiacchiere in un freddo pomeriggio d’inverno.

Il sole era tramontato da un po’, a breve sarebbe stato buio pesto. Buio come poteva diventarlo un giardino di città, si capisce. Ma i pettirossi non sono animali notturni, e l'illuminazione cittadina al nostro non dispiaceva più di tanto. Anche perché non solo non rovinava lo spettacolo, ma gli consentiva addirittura di avvicinarsi per assistervi in totale sicurezza. Beh, più o meno…  Balzò in cima ad un muretto, giusto per mettersi fuori tiro da pedoni e cani a passeggio. Mancava poco. Ecco, forse stava cominciando. Il balcone di fronte si illuminò per un istante di un bagliore quasi soffocato. Poi, più niente per qualche istante e quindi, d’improvviso, tutto il parapetto si accese di una cascata di luci colorate che si inseguivano senza sosta. Blu, rossi, gialli e verdi per cominciare, e poi altri ancora che non si capiva neanche bene se erano proprio colori o solo riflessi. Dopo qualche secondo anche il davanzale avvampò, e poi le finestre.. Il pettirosso sapeva il motivo di tutta quella luminaria. Era il Natale. Lui e tutta la sua specie conoscevano bene quella festa, perché a loro ricordava anche il motivo per cui il loro petto brillava di quel rosso scarlatto. Chiuse un attimo gli occhi, per richiamare le storie che gli raccontava il nonno..

“Devi sapere” diceva, “che in principio noi eravamo degli uccellini grigi, dalla punta del becco a quella della coda. Io avrei detto marroncini, ma la leggenda sostiene “grigi”, e allora restiamo sul grigio. Non che ci sia niente di male, intendiamoci, un colore è un colore. Il fatto è che non avevamo niente di rosso, ecco.
Poi, più di duemila anni addietro (secondo il conto degli uomini) capitò che uno dei nostri bis-bis-bisavoli, un sacco di bis, si trovasse dalle parti di Betlemme. Cose che succedono, noi Pettirossi siamo un po’ dappertutto del resto. Passando davanti ad una stalla notò all'interno, un po’ in disparte, una famigliola raccolta intorno ad un focolare con un bambino piccolo piccolo che sembrava dormire di gran gusto. Ah sì, mi ero dimenticato di dire che era notte. E che era inverno, ecco. Era notte ed era inverno. Il bimbo dormiva, dicevo, ed anche i genitori. La mamma lo stringeva forte forte per tenerlo al caldo, perché il fuoco che avrebbe dovuto riscaldarli era ormai ridotto ad una misera fiammella. Il nostro antenato capì subito che la faccenda poteva diventare pericolosa: faceva molto freddo quella notte, e le piume con cui gli umani si ricoprivano erano veramente poco adatte a quel clima. Senza neanche pensarci due volte, entrò nella stalla, si piazzò davanti al focolare e prese a battere le ali in una specie di volo da fermo, gettando aria sulle braci con tutta la forza che aveva. In breve il fuoco riprese a brillare vigorosamente, il bimbo aprì gli occhi a metà e cacciò una specie di farfuglìo che avrebbe anche potuto essere di approvazione. Incoraggiato, l’antenato aumentò il ritmo finché le fiamme non tornarono a sfavillare alte e potenti come non mai. Ora la luce del fuoco illuminava tutta la stalla, proiettando uno sgargiante riflesso rosso scarlatto sul petto del bisavolo mentre il calore si diffondeva gradevolmente tutto all’intorno. Per farla breve, visto il risultato il nostro eroe continuò entusiasticamente a sventolare aria per tutto la notte, e al mattino dopo scoprì che il riflesso rosso fuoco che colorava il suo petto non aveva nessuna intenzione di andarsene, anzi, sembrava diventato il colore vero e proprio delle sue stesse piume. Poi gli umani si svegliarono, e si profusero in ringraziamenti, offrendosi anche di condividere qualcosa della loro modesta scorta di cibo con l’antenato. Che dopo aver mangiato il loro pane e bevuto la loro acqua come si conviene in questi casi, salutò e ringraziò a sua volta, per tornare quindi alle sue occupazioni. Ora, tutti noi sappiamo che il bimbo addormentato era niente di meno che il figlio del nostro Creatore. Non solo nostro. Di tutti. Il Creatore, insomma. E che fu la sua riconoscenza a donarci il Rosso che ci contraddistingue. Sua e di Sua Madre. E del Padre. Loro, insomma. Ecco.”

Tornato al presente, il pettirosso si immerse nuovamente nello spettacolo di luci che ormai correva a pieno regime. Avverti qualcosa di freddo posarsi delicatamente sulle piume della nuca. Sollevò  lo sguardo: aveva preso a nevicare.. Difficile dire quanta ne sarebbe venuta giù, il cielo non si vedeva più da un pezzo. Ma sembrava una cosa seria. Ci sarebbe stata ressa, alla mangiatoia.

Natale


In settimana di neve ne era scesa parecchia, ma non in maniera esagerata. I bambini erano scesi a fare il canonico pupazzo con il naso di carota, si erano rincorsi, erano caduti a faccia in giù e a faccia in su nella coltre che copriva prato e vialetti, si erano sfidati a palle di neve, alcuni avevano vinto e altri perso, e quando aveva incominciato a far buio erano rientrati. Per ricominciare il giorno dopo, e quello dopo ancora, i bambini portavano sempre un sacco di allegria.
Oggi, ad ogni modo, era il giorno di Natale, e l’allegria era venuta da sè. C’era stato un sacco di movimento, fin dal mattino presto. Gente che andava e veniva, c’erano mille riti da eseguire in quel giorno, e ognuno aveva il suo, uguale eppure diverso da quello di tutti gli altri. Poi, in tarda mattinata, gli arrivi avevano incominciato a superare le partenze, e chi arrivava non lo faceva mai a mani vuote. A mezzogiorno in punto, beh, più o meno, in giro non si vedeva più nessuno, neanche a pagarlo. Erano tutti in casa, con le gambe sotto al tavolo. Così si dice, Anche nell’appartamento della mangiatoia si faceva festa. C’era un bel po’ di gente, e voci, e rumori. Ogni tanto qualcuno usciva sul balcone a prendere qualcosa, lasciando scappare all’aperto certe folate di aria calda così carica di profumi buoni che si potevano sentire fin giù di sotto, in giardino. Bene bene, questo voleva dire che tra non molto anche la mangiatoia sarebbe stata imbandita a festa. Ci sarebbero state un sacco di cose speciali, magari anche quel pane dolce di cui parlavano spesso i merli, sostenendo che era stato inventato proprio per loro. Fanfaronate, ma di certo era una squisitezza. C’era solo da aver pazienza. A metà pomeriggio, diffatti, uno dei costruttori uscì con un vassoio pieno zeppo di specialità e prese a rifornire la loro “tavola”. Ci mise il suo tempo per finire, tanto era carico, e poi tornò dentro, al calduccio. Il Pettirosso non ci pensò due volte, e si precipitò a piazzare, a sua volta, le zampe sotto la mangiatoia. Anche se nel suo caso era solo un modo di dire. Uno dei merli lo aveva preceduto, fiondandosi sul suo mucchietto di dolci preferito. Ma non era un problema, c'era spazio per tutti. Da una finestra alcune persone li stavano osservando con una certa soddisfazione. Neanche questo era un problema, accadeva regolarmente. E comunque si stancavano piuttosto rapidamente. Manco a dirlo, dopo appena poco di più che un attimo, arrivarono le cinciarelle. Il merlo schizzò via a precipizio. Il pettirosso invece proseguì, fingendo di non essersi accorto di nulla.

“Rosso!” lo chiamò la cincia di destra. Il rosso continuò a becchettare. “Rosso!” chiamò ancora, più forte.
“Che vuoi?”
“Questa è roba nostra. Pensavo ci fossimo capiti, ormai.”
“E’ che sono un po’ lento, sai? Dov’è che c’è scritto?” replicò, senza smettere di pranzare..
“Non fare il furbo con noi. Non ti conviene.”
“Ma certo che no. Allora sapete che facciamo? Se è roba vostra ve la lascio. Io ho altro da fare, del resto: scusate il disturbo e salutatemi a casa, quando ci tornate”

Detto fatto, spiccò il volo come nelle occasioni precedenti, senza pensarci poi troppo. Nel giro di qualche minuto la mangiatoia sarebbe tornata libera, era sempre così. E quelle bestiacce non sarebbero riuscite a mangiare tutto neanche fossero state grosse il doppio e dieci volte più numerose. Decise di aspettare nelle vicinanze, inutile sbattersi più di tanto.
Ora, è da sapere che gli uccelli non erano gli unici frequentatori del balcone. Questi costruttori di  mangiatoie, diffatti, tenevano anche due micie: una arancione, come il gatto Garfield, l’altra nera, con una piccola macchia bianca sul petto. Diverse tra di loro come il giorno e la notte, se l’arancione aveva comportamenti e abitudini (magari anche per motivi cromatici) quasi leonesche, la nera ricordava assolutamente una pantera.  E come una pantera, appunto, in questo preciso momento si stava avvicinando a passo di leopardo alla mangiatoia. Nessuno l’aveva vista uscire, eppure era lì. Improvvisamente balzò allo scoperto, ma invece di lanciarsi verso la preda si arrestò a mezza strada, appiattendosi al suolo come se questo fosse stato sufficiente a renderla invisibile. Non funzionò un granchè.

Il pettirosso, dalla sua posizione, stava osservando la scena con un misto di curiosità e preoccupazione. La mangiatoia stava un in un angolo, e per volar via le cincie avrebbero dovuto sorvolare a breve distanza la pantera in “agguato”. Sarebbe bastato un balzo ben calcolato per prenderle. Magari era proprio quello che voleva: acchiapparle al volo. Divertimenti gatteschi. Le cince intanto avevano inevitabilmente visto il pericolo, e fatti i loro conti avevano deciso di agire in maniera inaspettata: anziché fuggire avevano scelto di combattere. Bulli con i cosiddetti, tutto sommato.  Si erano piazzate in una stretta formazione a cuneo e avevano preso ad eseguire una specie di danza fatta di colpi sulle ali, pestoni di zampe, roteamenti di teste, smorfie, sbattimenti di becchi e cosa simili. Accompagnati da versi, strilli, grida ed altre amenità del genere. Avrebbe anche potuto apparire terrificante, ma sfortunatamente il gatto non sembrava essersi terrificato un granché. Agendo più che altro d'istinto, del resto faceva sempre così, il pettirosso decise di intervenire a supporto dei suoi fratelli di ordine. E sottordine, pure. Una questione di affinità tassonomica insomma. Si lanciò come un missile fin oltre le cime degli alberi, e ancora un po’ più in su (che brivido, non volava spesso così in alto), poi scese precipitevolissimevolmente verso balcone, planò a mille all’ora sopra alla nuca della gatta in agguato, ruotò su sé stesso come una trottola e atterrò perfettamente, sui classici tre punti, proprio di  fronte alla predatrice. Senza porre altro tempo in mezzo spalancò le ali e gonfiò le piume, mostrando tutto il rosso che aveva. Improvvisamente, senza nessun motivo apparente, tutte le luci del balcone si accesero e presero a lampeggiare furiosamente, mentre il pettirosso lanciava il suo urlo di guerra. E dire che non sapeva neanche di averne uno. Beh, tutto questo fu veramente troppo per la nostra gatta, che rassomigliando ad una pantera non poteva ovviamente avere un cuore da leone. Schizzò via come un fulmine verso la porta più vicina, e tanto fece a forza di zampate, miagolii e salti in alto, che qualcuno arrivò quasi subito per farla entrare. “Ma che hai, cucciolotta?” le domandò l'umana.  La cucciolotta però era già sparita nel soggiorno, dietro al divano. Le decorazioni sul balcone si spensero.

“Caspita, rosso. Chi l'avrebbe mai detto…”
Il Pettirosso si voltò con la seria intenzione di mandare a quel paese la cinciarella che aveva parlato e tutte le sue sorelle, ma improvvisamente tutte le luci di Natale si accesero nuovamente, abbagliandolo. Per un istante o due non fu più in grado di fare o pensare nulla, poi i fari si spensero. Ma tutto ormai era cambiato. La rabbia era svanita, il vaffa se ne era andato. Il Natale era tornato. Per la prima (e forse unica) volta avevano condiviso qualcosa, e questo non andava sprecato. Forse era quello che cercavano con il loro atteggiamento così aggressivo: un senso di appartenenza, noi contro tutti, ma almeno “noi”. Magari era la volta buona di allargarlo questo “noi”, e una volta iniziato, chissà fin dove si poteva arrivare. E in caso contrario, beh, comunque a Natale bisogna essere più buoni, è un must.

“Certo che siamo stati forti, vero?”
“Fortissimi, rosso. Una forza della natura!” Tutto il gruppo esplose in una risata liberatoria.La tensione si era spezzata.
“E avete visto che faccia ha fatto il gatto quando si sono accese le luci?” puntualizzò una voce.
“Uno spettacolo! E come è scappato via!” commentò un’altra.
“Nuovo spettacolo. A proposito, cos’è quella roba che facevate tutte insieme, in formazione?”
“Una danza di famiglia. Terrificante, vero?”
“Assolutamente. Si può imparare qualcosa?”
“Forse, ma non so se sei all’altezza..”
“Beh, magari poi possiamo provare. Accidenti, tutto questo movimento mi ha messo una gran fame. A voi no?”
“Già, ma qui c’è un’intera mangiatoia a disposizione.”
“E allora approfittiamone.”
“Diamoci sotto. Bello quel sistema di mostrare petto e ali con un movimento solo, magari lo mettiamo nella danza. Ma prima, distruggiamo questa mangiatoia, avanti.”

Magari non era un granché, ma era comunque un inizio..

Epilogo


La gatta arancione stava ancora osservano gli uccellini banchettare sul balcone quando la nera la raggiunse.

“Che hai combinato?” le chiese.
“IO? IO? Io non ho fatto niente. Sono uscita per mangiare un po’ dello strutto che i padroni riservano per i pennuti”
“Ancora?”
“Lo sai che mi piace. E poi ne mangio solo un poco e ne lascio abbastanza per tutti..”
“E allora?”
“E allora niente: la mangiatoia era occupata, quindi mi sono piazzata un po’ indietro ad aspettare che la liberassero. Ma bene in vista, così che fosse evidente che c’era una coda..”
“Va bene. E poi?”
“Beh, poi la gang degli uccellini invece di sbrigarsi a prendere quello che dovevano prendere e cedere il passo, hanno deciso di fare un flash mob fuori di testa. A quel punto è arrivato un altro uccello tutto rosso davanti che doveva avere qualche brutta malattia, e d’improvviso tutte le luci si sono messe a lampeggiare come se il balcone stesse per venire giù.”
“E tu cosa hai fatto?”
“E cosa dovevo fare? Mi trovavo chiusa in un posto largo come un fazzoletto che forse stava per crollare, con un branco di uccelletti psicopatici più uno che, per quel che ne sapevo, poteva aver preso il virus T ed essere lì lì per trasformarsi in uno Zombi, e tu mi chiedi che cosa ho fatto? Me la sono data a gambe, ecco che cosa ho fatto. E con tutta la velocità che avevo.”
“Mah, secondo me guardi troppa televisione.”
“Troppa televisione un piffero. La prossima volta, invece di stare a guardare alla finestra, vieni fuori a darmi una mano. E buon Natale.”
Detto questo, la gatta nera voltò le spalle alla sua compagna arancione e si diresse verso la cucina a vedere se era rimasta un po’ di panna nel suo piattino.
“Buon Natale” mormorò l’altra, avviandosi verso il divano e lasciandosi alle spalle, ormai dimenticato, il telecomando delle decorazioni di Natale per esterni con cui aveva giocherellato fino a pochi minuti prima.

Ecco, il racconto di Natale è finito. Ma prima di porgervi anche i miei auguri volevo indicare che i fatti narrati si ispirano ad una vicenda realmente accaduta. Solo i nomi di luoghi, animali e persone sono stati cambiati, per ovvie ragioni di privacy. E con questo è tutto. Tanti auguri di Buon Natale e Felice Anno Nuovo.


image
Permissions beyond the scope of this license may be available at http://birdcosi.blogspot.com/
Illustrazione di Eugenio Bausola

Natale forcello


NATALE FORCELLO copia

Novembre, Ricetto di Candelo.

L'uomo richiuse la porta dietro di sé, consegnandosi all’Autunno.  Tra non molto avrebbe rimpianto il calore del camino davanti a cui si erano svolte le trattative, ma per il momento andava bene così. Era stata una buona giornata, assolutamente. A più di tre anni dalla grandinata del ‘905, che aveva distrutto i vigneti del Gattinara, riuscire a portarne a casa una fornitura ad un prezzo ragionevole era stata un’autentica fortuna. Brava gente, questi qui di Candelo. Commercianti, sicuro. Ma onesti, o quasi. E gente che vedeva lontano. Prima o poi la produzione dei vini sarebbe tornata a regime, c’era da scommetterci, ma nel frattempo quelli  stavano accumulando una fortuna. Mentre tanti altri, in Valle, erano stati costretti ad emigrare o ad andare a lavorare in fabbrica, e meno male che c’erano quelle, ad ogni modo. La Valle non sarebbe più stata quella di una volta, sicuro, ma la gente sarebbe vissuta per vedere tempi migliori, e quello era quello che contava per davvero. Un gemito prolungato proveniente dalla fitta nebbia che fluiva lungo i vicoli del ricetto lo riscosse dai suoi pensieri. Cosa era stato?  Ora non si sentiva più. Si guardò intorno, cercando di indovinare qualcosa, ma la fioca luce dei lampioni non aiutava per nulla. Il ricetto di Candelo era un autentico angolo di medioevo arrivato fino all’era moderna, con i suoi stretti vicoli lastricati e i muraglioni fortificati. Bellissimo, niente da dire, ma a quell’ora e con quel tempo anche piuttosto inquietante.  Chissà cosa altro poteva averlo seguito nel suo viaggio nel tempo, arrivando fin lì dai secoli oscuri. Che mica si chiamavano “oscuri” per niente. Rieccolo. Questa volta non cessò improvvisamente, ma anzi proseguì modulandosi in intensità e frequenza. Una seconda voce si unì alla prima, accordandosi alle sue variazioni. Musica, ecco cos’era! Un canto, oppure.. no, erano strumenti.. Come si chiamavano? Pive, ecco!  Incuriosito, l’uomo si incamminò in direzione del suono. Percorse un paio di stradine, attraversò una specie di piazzetta, arrivò fino ai muri perimetrali e poi tornò un tantino indietro, sempre immerso in una nebbia da poterci piantare i chiodi. Alla fine svoltò l’angolo giusto.  La musica, che intanto era cessata, non poteva che venire da lì: dalla bottega del Liutaio. Senza neanche sapere bene il perché, aprì la porta ed entrò nel laboratorio. Quattro facce stupite ed anche un po’ intimorite si voltarono a guardarlo. “Fate, fate pure. Non badate a me” li autorizzò l’uomo. A torto o a ragione, i quattro decisero di accogliere l’invito del nuovo arrivato e tornarono ai loro affari. Quello che doveva essere il Mastro Liutaio proseguì l’esame dei curiosi strumenti che si trovavano sul banco di lavoro, dettando di tanto in tanto istruzioni al suo ragazzo di bottega che si affrettava a prendere nota. Gli altri due, intanto, rispondevano alle domande poste, prelevando e dando fiato agli strumenti quando la cosa risultava necessaria o utile.
L’uomo si avvicinò al bancone, per osservare. Le due pive erano simili, eppure diverse. Erano entrambe formate da un sacco di pelle oblungo piuttosto consumato (di pecora o di capra si sarebbe detto), a cui erano ancorati, rispettivamente, tre e quattro legni che assomigliavano vagamente a dei flauti o dei pifferi, fatti di legno chiaro tirato a lucido. Era proprio su di uno di quelli che il Liutaio stava lavorando, con qualche incertezza è vero, ma anche con una certa efficacia. Nel mentre, i due Pivari mostravano di riuscire comunque a produrre una varietà di suoni impressionanti, muovendo le dita sui fori dei legni, soffiando nel sacco e premendolo per svuotarlo. Peccato che tutte quelle prove non mostrassero alcuna armonia. Però a quello si poteva anche rimediare.
“Scusate..” intervenne.
Nuovamente, gli altri quattro si interruppero e si voltarono a guardarlo.
“Potreste suonarmi qualcosa? Se non è di troppo disturbo, si intende. E se gli strumenti lo permettono.”
“Veramente stavamo facendo altro, al momento”  replicò il Liutaio.
“Certamente, non intendo interferire. Ma vorrei cionondimeno ascoltare qualcosa di Natalizio,  proprio qui ed ora. Naturalmente sarei disposto a compensare il disturbo” aggiunse, depositando sul bancone il prezzo di una discreta sedia a teatro.
Tentati dalla somma, o forse incuriositi dal personaggio, i Pivari imbracciarono i loro strumenti. “Tanto si doveva provare, no?” domandarono in direzione del Liutaio, il quale annuì senza troppa convinzione. Soddisfatta la forma, i due attaccarono a suonare un pezzo appartenete al repertorio richiesto, facendo quindi seguire un paio di brani assortiti tanto per gradire. Terminata la prova, tornarono a guardare quello che adesso era diventato un cliente, in attesa di un commento o di una nuova richiesta. 
Per tutta risposta ottennero un leggero applauso, che sembrava ad ogni buon conto trasmettere una certa soddisfazione.
“Bravi, ragazzi miei. Bravi, veramente. Complimenti. Questo è proprio quello che speravo di sentire.”
“Beh, grazie.” Rispose uno dei ragazzi. “E quando Mastro Antonietti avrà finito il lavoro, la mia Piva suonerà anche meglio.”
“Splendido!” proseguì l’altro. “Ma lasciate che mi presenti,  adesso. Mi chiamo Guglielmo Guglielmina e tra le altre cose sono il proprietario dell’Hotel Mottarone. E avrei una proposta da farvi.”

24 dicembre, Mottarone.

"E allora?" domandò Agostino. 
"Un momento" rispose Bartolomeo, sbuffando come una locomotiva. "Lasciami riprendere fiato." Aveva fatto tutta la strada di corsa proprio perchè non vedeva l'ora di portare la notizia al suo compaesano, ma adesso un attimo di respiro gli ci voleva proprio.  
"E allora?" ripeté il primo Pivaro dopo pochi istanti.
"Si può fare. Thomas ci  presta gli ski, come li chiama lui, e quando arriviamo giù li possiamo lasciare ad un tizio che è un amico suo. Poi ci pensa lui a farglieli avere." 
"E la pista?" 
"Mi ha spiegato tutto per filo e per segno, e dice che è talmente facile che anche due novellini come noi possono scenderla a occhi chiusi. Dice anche che se non ce la facciamo, per quest'anno smette di insegnare gli ski ai turisti e passa il resto dell''inverno a prenderci a pedate nel sedere."
"E allora facciamolo" dichiarò Agostino, mostrando più convinzione di quanta in realtà non ne avesse. Per due come loro, che avevano imparato ad usare gli sci appena appena, approfittando dei tempi morti della loro arte e della disponibilità del maestro di sci Svizzero che l’Hotel Mottarone metteva a disposizione dei suoi illustrissimi clienti, pensare di venir giù dal Mottarone da soli era semplicemente una follia. Ma era stata una stagione pazza, quella,  quindi una pazzia in più o una pazzia in meno che differenza faceva? E poi, divertimento a parte, era il modo più veloce per poter scendere a valle, e i patti con il Signor Guglielmina erano chiari: fino al termine del Galà di Mezzanotte loro dovevano ritenersi in servizio. Partendo, anzi, skiando alle prime luci dell'alba, però, avrebbero raggiunto Armeno in tempo per scroccare un passaggio 
a Don Giulio, che si doveva recare alla collegiata di Gozzano di prima mattina, non si ricordava più per che cosa. Lì, all'Albergo del Falcone, avrebbero poi senz'altro trovato un altro passaggio per arrivare almeno fino a Borgosesia, e magari anche a Biella. Natale è Natale, ma c'era sempre qualche carrettiere o qualcosa del genere che doveva viaggiare per forza, anche a dispetto dei Santi.  Da Biella in poi un qualche tipo di trasporto lo si sarebbe trovato, alla peggio si poteva salire a piedi.  E magari arrivare comunque a casa prima di notte, o al massimo per Santo Stefano. Certo, ci voleva un bel po' di fortuna appunto, ma la fortuna aiuta gli audaci, no?
“Oh, ma ti sei imbambolato?"
“Eh? No. O forse sì, ma solo un attimo. Cosa stavi dicendo?"
“Che sarebbe il caso di provare un po', per questa sera."
“Sì certo. Andiamo.”
Un po’ per vezzo e un po’ per necessità, fin dall’inizio avevano scelto di esercitarsi all’aperto, in “divisa” da Pivari. E un po’ in disparte, per evitare di svelare il repertorio e/o di infastidire i clienti. In fondo era solo una questione di punti di vista. Sul retro dell’albergo si trovavano un paio di stradine di servizio che venivano mantenute agibili anche durante l’inverno, quantomeno per un breve tratto. Una di queste accedeva ad una radura riparata dal bosco su due lati che pareva fatta apposta per suonarci con le Pive, o almeno così era sembrato a loro. E allora, quando potevano provavano proprio lì, solo che quella mattina il posto era occupato. In mezzo allo spiazzo innevato, evidente a più non posso, ci stava un uccello nero. Non un corvo o una cornacchia, ma piuttosto un gallo, o meglio, un galletto. Ne aveva sagoma (grosso modo) e dimensioni,  e a ben vedere anche il tipico portamento. Non mostrava cresta e bargigli evidenti, ma soltanto due vistose sopracciglia rosso fuoco. E un altrettanto vistosa coda candida, che però nella circostanza si confondeva un tantino con lo sfondo della neve. Sembrava razzolare nello spiazzo come avrebbe fatto un suo equivalente domestico in un’aia, o forse era solo l’impressione che dava mentre si faceva strada nella neve alta, intento a fare chissà cos’altro.  Seminascosti tra gli alberi, altri due ospiti dell’albergo stavano osservando la scena con evidente interesse. Uno dei due alzò la doppietta rimasta fino a quel momento celata al di sotto del pesante tabarro, prendendo la mira. Senza pensarci su due volte, Bartolomeo imbracciò la Piva e scatenò un vero e proprio uragano sonoro, una cosa da far paura. Istintivamente i cacciatori si voltarono a guardare, e quando tornarono a cercare la preda, beh, quella se ne era già andata da un pezzo. Bartolomeo allargò le braccia in loro direzione, come a dire “Sono qui per suonare, che ci volete fare?”. Quelli lo mandarono a quel paese con un gesto inequivocabile, poi girarono sui tacchi e andarono a cercare miglior fortuna altrove.
“Sì, e altrettanto anche  a Voi!” replicò Bartolomeo a mezza voce: erano pur sempre clienti dell’Albergo
 dopotutto.
“Non ti vanno proprio giù, vero?” commentò Agostino sogghignando.
“Chi? I cacciatori? E certo che no! Che male gli avrà fatto, poi, quella povera bestia?”
“Prova a chiederglielo. Guarda, è ancora lì.”
In effetti il gallo era tornato, e li stava guardando con quella che non poteva essere altro che curiosità. Bartolomeo suonò una manciata di note, una specie di saluto. Per tutta risposta l’altro aprì la coda a ventaglio, mettendo in mostra una bizzarra coppia di lunghissime penne laterali dalla punta ricurva che facevano rassomigliare il tutto a una..
“Com’è che si chiamava quella cosa che suonava Nerone mentre Roma bruciava?” domandò Bartolomeo.
“La Cetra?”
“Sì, quella lì. Non ti sembra che la sua coda assomigli a una Cetra?”
“O era una Lira? Che differenza c’è tra le due? Comunque sì, mi sembra. Neanche tanto, però. Ma è lui che fa queste voci?” Si sentiva uno strano risucchio, come lo scarico di un lavandino mal funzionante,  e un borbottio a metà strada tra il verso del piccione e quello del tacchino.
“Sembrerebbe di sì. Beh, se lui canta, noi suoniamo, no?”
“Siamo qui per questo. Attacca.” Ai primi accordi della melodia scelta per il compito
 il gallo prese a zompettare avanti e indietro, a saltare, a camminare in cerchio. E a sprofondare anche nella neve, ma quello probabilmente non rientrava nelle sue intenzioni. Sbalorditi, i due Pivari si interruppero per guardarlo, e altrettanto fece l’uccello. Ripartirono, e ripartì anche lui. Si fermarono nuovamente, e nuovamente si fermò anche quello. Dopo un po’ di tira e molla i musicisti decisero di proseguire indipendentemente dalle coreografie altrui,  e il volatile proseguì anche lui per una buona ventina di minuti. Poi, senza una ragione apparente, spiccò rumorosamente il volo e scomparve nel primo sottobosco.  
Rientrati in albergo, i due andarono a cercare il Rinaldo Covina, che faceva un po’ da guida per i turisti e aveva dimostrato di saperne più di tutti su piante e animali del posto.
“Era senz’altro un Gallo Forcello,  o Fagiano di Monte se preferite. Ma non ce li avete voi, dalle vostre parti?"
“Adesso che lo hai battezzato, mi sembra proprio di sì. Devo averne sentito parlare qualche volta.  Ma stanno sempre su in alto, come qui. I nostri galli del fondovalle al massimo sono Padovani, come le galline."
"Non ne avevo mai visti neanche io" intervenne Bartolomeo. "Fino ad oggi almeno." 
"Allora venite con me, che ve ne faccio vedere un altro."
"Qui in albergo?"
"Sì, venite.."
Passarono attraverso le cucine, sfidando le ire dei cuochi già ferocemente impegnati nella preparazione della cena del Galà di Natale,  e arrivarono fino alla hall, dove la direzione aveva allestito il tradizionale Presepe. 
"Ecco: date un occhiata là, sul tetto della capanna" li invitò il Covina. I due si avvicinarono per guardare. Sulla tettoia che riparava la Natività c'era un gallo nero che non poteva essere che il loro amico Forcello. 
"Non mi vorrai dire che ce ne era uno anche a Betlemme!" Protestò Bartolomeo. 
"No, no di certo. Però ci sono delle leggende che raccontano di come durante la notte di Natale, il primo Natale intendo, un gallo nero abbia cantato dal momento della nascita di Gesù fino all'alba successiva. Per portare al mondo la lieta novella, dicono alcuni. Oppure per tenere lontani i diavoli del deserto, sostengono altri. Insomma, il perché con si sa, ma comunque ha cantato."
"Ma davvero?"
"Proprio così, ne parla anche Shakespeare nell'Amleto. Qualcosa del genere, comunque."
"Beh, ma che c'entra il nostro gallo?"
"E' un'idea del nostro Don Giulio. Dice che dai versi che fa questo qui, è ovvio che deve essere stato lui a cantare tutta la notte da Gesù. E così si è giocato la voce.."
Dopo un istante di assestamento i due ragazzi scoppiarono in una sincera risata, risata a cui si unì subito anche la guida.
"Sarà venuto in montagna per curarsi" azzardò Agostino. "L'aria di queste parti è fenomenale per la gola, si sa."
"Comunque sono ancora più contento di aver fatto amicizia, oggi" commentò Bartolomeo. "E se è alle dipendenze dirette del capo lassù, speriamo che ci metta qualche buona parola, di tanto in tanto."
"Speriamo."
"Speriamo."

25 dicembre, Mottarone.


Bartolomeo si svegliò con gli occhi tutti appiccicati e la bocca che sapeva di segatura. Mamma mia, che festa. Avevano suonato prima, avevano suonato durante, e avevano suonato anche dopo, fuori, sulla neve. Le pive erano state un successone. Un Inglese, anzi, no: uno Scozzese, aveva anche provato a replicare un paio di melodie delle sue terre. Dove, diceva, si usavano degli strumenti molto simili ai loro. Il risultato non era stato all'altezza delle aspettative, ma tutti quanti si erano divertiti un mondo. Un Americano di Atlanta, Georgia, per un po' aveva requisito l’intera orchestrina cercando di far suonare quadriglie  e contraddanze, e anche un tipo di musica che lui chiamava "di campagna" e che giurava che prima o poi sarebbe partita dalla sua città alla conquista di tutti gli Stati Uniti d'America. Quelli veri, quantomeno. Ma il culmine della serata era stata la Messa di Mezzanotte, era perfino arrivato un prete apposta da Varallo per celebrarla. A Don Giulio non era piaciuto per niente, ma era un amico di famiglia dei proprietari. E poi lui non sarebbe potuto venire, ad ogni modo. Avevano bevuto troppo, e dormito troppo poco, ma adesso era ora di muoversi. Agostino era già più avanti, aveva recuperato un po' degli avanzi che avevano raccolto nelle cucine la sera prima e stava facendo colazione. "C'è la nebbia" dichiarò. 
"Hai guardato fuori?"
"No, mi hanno mandato un telegramma. Certo che ho guardato fuori."
"Nebbia o non nebbia, noi dobbiamo andare."
"E chi dice di  no? Però c'è la nebbia."
Mandato giù qualche boccone e preparato il necessario, i due si avventurarono all'aperto. 
"Caspita che nebbia!" esclamò Bartolomeo appena superata la porta. 
"E che ti avevo detto?"
"Sì, ma non mi aspettavo che fosse così spessa. Speriamo che si sollevi."
"Tecnicamente sono nuvole, ed è difficile che si sollevino più di tanto. Al massimo si diradano. O si spostano."
"Quello che è. Basta che si levino dalle scatole. Non si riesce neanche a capire da che parte si deve andare."
"Beh, non esageriamo. La pista si vede ancora."
"Più o meno. Comunque muoviamoci. Sono tutto rintronato, magari questo fresco mi rimette a posto."
"O ti ammazza. Dai andiamo."
Pochi minuti dopo la via era già perduta. Avevano probabilmente voltato a sinistra dove avrebbero dovuto voltare a destra. O erano andati dritti. O qualcos'altro. Di fatto, l'ultima discesa li aveva portati a un punto morto, con il bosco da una parte ed un versante impraticabile dall'altra. O, almeno, così sembrava. 
"E qui dove siamo, adesso?"
"Ne so quanto te. Sono dei pinnacoli quelle ombre laggiù?"
"O forse una cima." 
"Non ce ne dovrebbero essere lungo la pista."
"Non lungo quella giusta, quantomeno."
"Dici che ci siamo persi?"
"Sembra proprio di sì, a meno che... Ma cos'è questo rumore?" dalle chiazze di rododendri che spuntavano dalla neve proveniva uno strano risucchio, seguito spesso da un borbottio a metà strada tra il verso del piccione e quello del tacchino. 
"Deve essere uno di quei galli." 
Improvvisamente dalla  macchia sbucò una testolina nera sormontata da due 'sopracciglia' di un bel rosso vivo, cancellando ogni possibile dubbio. "Magari è proprio il nostro amico" azzardò Agostino.
"Può essere. Quanti mai ce ne saranno, qui?"
Intanto il Forcello si era fatto avanti.  Arrivato a circa un metro dai due Pivari si fermò ad osservarli in quella che non poteva essere altro che una posizione di attesa. 
"Mi dispiace, bello mio, ma questa volta non abbiamo il tempo per fermarci a suonare. Nemmeno per tirar fuori gli strumenti, a dire il vero. Ma ci ha fatto piacere incontrarti, se sei sempre tu."
Il Gallo li scrutò ancora per un secondo o due, poi girò sugli speroni e si avviò sui suoi passi per qualche metro. Quindi si voltò nuovamente e tornò a fissarli.
"Ma cosa vuole, secondo te?" domandò Bartolomeo più a se stesso che al socio, muovendosi quasi automaticamente verso l'animale. "E adesso che fa?" Il Gallo si era allontanato di qualche altro metro, come per mantenere le distanze, ma poi si era fermato nuovamente a guardarli.
"Secondo me vuole che lo seguiamo" rispose alla fine Agostino.
"E dove?" 
"Cosa vuoi che ne sappia. Magari ci vuole presentare la famiglia."
"Facile."
"O magari conosce una strada per scendere a valle."
"E magari ci porta lui in bicicletta."
"Bravo, fai anche lo spiritoso, così si offende e ci molla qui." 
"Ma non starai pensando di seguirlo sul serio?"
"Abbiamo fatto cose più strane."
"Dimmene tre."
"Comunque, che altra scelta abbiamo? Non si vede un accidente, non sappiamo dove siamo o da che parte andare, e intanto Don Giulio tra una mezz'ora al massimo scende a Gozzano, che ci siamo o no."
"Un po' ci aspetta, l'hai sentito."
"Un'altra mezz'ora al massimo. Poi deve partire, altrimenti non arriva in tempo neanche lui."
"E allora seguiamo il  Gallo?"
"Hai un'idea migliore?" 
Bartolomeo si girò verso il volatile. "Allora vada pure, signore. Noi la seguiamo."
Come a dimostrare di aver compreso il messaggio, il Gallo si avviò immediatamente, seguito alla meglio dai due Pivari ancora montati su sci. A volte spiccava il volo per brevi tratti, sempre preoccupandosi però di rimanere in vista. A volte risaliva il pendio o scalava una gobba, con i due amici che arrancavano dietro avanzando a"liska di pescie", come diceva Thomas. Per la maggior parte del tempo, però, si limitava a guidarli giù lungo un tracciato che vedeva solo lui e che consentiva anche ai due principianti di tenere il passo. Dopo un viaggio durato un'eternità, anche se poi non doveva essere stata neppure un'ora, la foschia prese a diradarsi. Il cielo si fece più luminoso, e qua e là cominciarono a comparire i contorni delle nuvole (o dei banchi di nebbia), agitati da una brezza invisibile ma piuttosto vigorosa. Infine apparvero i primi squarci di sereno, e tutto d'un colpo il gruppetto si trovò allo scoperto, al centro di un'incantevole prato innevato. Il Forcello si arrestò nuovamente, voltandosi per controllare il risultato. Poi gloglottò sonoramente un paio di volte ed infine volò via, rientrando nel nebbione e sparendo alla vista.
"Tanti saluti anche te, amico mio. E grazie per il passaggio" gli gridò dietro Agostino.
"E Buone Feste, quelle rimaste  almeno. Ci rivediamo tra qualche giorno" completò Bartolomeo. "Ma tornando a noi, hai capito dove siamo finiti? Non vedo i Laghi, né a destra né a sinistra. E anche queste montagne qui davanti non mi suonano giuste, anche se in un certo qual modo mi sembrano familiari."
"Giù a Sud c'è una città piuttosto grande, potrebbe essere Gozzano. O Borgomanero."
"Non mi quadra. E' troppo grossa. E poi, se lo fosse, il Lago d'Orta sarebbe proprio qui di fianco. Dove invece c'è quel fiume."
"Aspetta: lo so io dove siamo.  Quello è il Cervo, e la città a valle è Biella."
"Lo sapevo. Sei impazzito."
"Ma no, guarda: Rosazza (lo vedi il castello?), San Paolo, Sagliano e..”
"Andorno! Ti venisse un colpo, siamo a neanche un ora da casa!"
"Ed è tutta discesa."
"Ma come è possibile?"
"Merito della nostra guida, immagino."
"Ammesso e non concesso, la domanda rimane: come è possibile?"
"Avrà piazzato quella buona parola presso le sue amicizie altolocate, ricordi? Francamente, non lo so e non mi importa. L'unica cosa che conta è che se ci diamo una mossa invece di stare qui a friggere aria, magari riusciamo ad arrivare a casa per il pranzo. 
"Giusto. Allora scendiamo."
Precipitarono a valle ad una velocità che neanche una valanga avrebbe potuto eguagliare, raggiungendo le prime abitazioni del paese in anche meno dell'ora preventivata. Per caso o per combinazione, che poi è la stessa cosa, la prima persona che incontrarono fu il Giuseppe, cioè il cognato di Agostino. 
"Ma guarda un po' chi si vede, i due artisti. Ma non dovevate rimanere su all'albergo fino a Natale?"
"Già. E difatti che giorno è oggi?"
"La Vigilia."
Il Beppe non era il suo parente (o affine) più sveglio.
"No, caro. La vigilia era ieri, e di conseguenza oggi è Natale. 
"Ascolta: non so che calendario usiate su in montagna, ma qui oggi è la Vigilia, e il Santo Natale è domani. E se non credi a me, credi al parroco. Don Dino, che giorno è oggi?"
Il parroco stava giusto passando di li. "Ma hai già bevuto a quest'ora Beppe?"
"No, è mio cognato che ha dei problemi con il calendario."
"E' la Vigilia di Natale. Perché, che credeva?"

24 dicembre, Tavigliano.

La messa di Mezzanotte stava per incominciare. Agostino raggiunse Bartolomeo per scambiare due parole, dal rientro in paese i due non avevano più avuto occasione di incontrarsi. 
"Sai," attaccò, "questo pomeriggio pensavo che sarebbe stato divertente riuscire a rientrare in Albergo in giornata, giusto per vedere le nostre facce nel vedere le nostre facce."
"Curioso, non mi era venuto in mente. In effetti sarebbe stato divertente."
"E invece siamo qui. E ad ogni modo non so se mi sarei creduto."
"Forse dovremmo dire che siamo 'anche' qui'."
"Certo che è un Natale strano questo." 
"Un doppio Natale. Un Natale Forcello."
"Già, proprio Forcello."
"E allora facciamoci gli Auguri"  
"E allora Buon Natale. Buon Natale di qua e di là."
"Buon Natale a Noi, Buon Natale a Tutti."


E Buon Natale anche ai lettori.


Natale Forcello by Fabrizio Burlone is licensed under a Creative Commons Attribuzione-Non commerciale-Non opere derivate 2.5 Italia License.

Permissions beyond the scope of this license may be available at http://birdcosi.blogspot.com/

Illustrazione di Eugenio Bausola

image