Il Campo della Sciura

* PARTE QUINTA
Dovete sapere che a quel tempo in Borgolavezzaro viveva una strega. Una striä, come si diceva sul posto. Ma non una di quelle che hanno fatto un patto col diavolo, che mettono i crocefissi a testa in giù e sputano sulla porta della chiesa. No, non è proprio questo il caso. E non era neanche sempre stata una strega, poi. Anzi, in un tempo neppure poi troppo lontano era stata una moglie e una madre. E soprattutto, era stata una donna, curiosa ed intelligente come poche altre nella sua generazione. Il che non era visto proprio come una virtù, allora. E forse neanche adesso. Coetanee e, soprattutto, coetanei, ne soffrivano la competizione, ben sapendo tra l’altro di non avere mezzo di spuntarla con lei. Le autorità la tenevano d’occhio con sospetto, le autorità fanno sempre così quando qualcosa non rientra nei loro schemi. E’ nella loro natura, che ci volete fare? Ad ogni modo, tutto questo c’entra ben poco con la nostra storia fin qui. Quello che c’entra, piuttosto, è che tra le persone che l’avevano invece presa in simpatia c’era pure il curato di Santa Maria. Ad una mente non particolarmente maliziosa potrebbe anche sembrare strano che un curato mostri un particolare interesse per una giovane ragazza, difficile ed impertinente per giunta. Ma Santa Maria era una chiesa strana... Era molto, ma molto vecchia. Cadeva a pezzi, un giorno o l’altro sarebbe finita in testa ai fedeli riuniti a messa e finalmente qualcuno avrebbe provveduto a tirarla giù del tutto e magari a tirarne su una nuova. Doveva essere già successo in precedenza, comunque, perchè alcune pietre dabbasso nella cripta sembravano più antiche delle altre, e di parecchio. Qualcuna, altra stranezza, era anche decorata con motivi che di chiesa avevano poco e mostrava tracce di segni ed incisioni che nessuno dichiarava od ammetteva di saper leggere. Neanche i preti e gli studiosi che erano venuti apposta a guardarle. O qualcun altro tra i tanti che da sempre facevano avanti ed indietro in continuazione e mica sempre si capiva il perché ed il percome. Insomma: per farla breve se Santa Maria aveva le sue bizzarrie che le avesse pure il suo curato era sembrato a tutti semplicemente normale. Per dirne una, faceva il suo mestiere con fede e devozione evidenti, certo. Era amato da tutti nel circondario, aveva aiutato tanta gente e non aveva mai fatto danno a nessuno, è vero. Era rispettato dal Borgomastro e dalle Autorità Locali tutte, e più per merito che per convenienza si potrebbe dire. Perfino i suoi superiori lo portavano in palmo di mano. Però.. Però, ecco, a sentire i discorsi che faceva, a vedere i riti che praticava o le scienze che applicava, qualcosa non quadrava. Sembrava che pescasse da più di un mare, quello della Chiesa di Roma senz’altro il più vasto, ma non il solo. Impossibile a dirsi come facesse, ma un pizzico qui, una bella manciata là, un po’ di questo e un po’ di quello e quello che veniva fuori era un coro armonico, un pieno d’orchestra talmente lampante da non poter essere inteso altrimenti. Ed anche i più dubbiosi alla fine restavano persuasi di aver ascoltato il Verbo così come era stato scritto, anche se proprio non avrebbero saputo dire dove. Per la cronaca, qualcuno ricordava che anche il curato precedente era stato strano della stessa stranezza, i più anziani sostenevano che lo fosse stato anche quello prima, e che i loro nonni, quando loro erano bambini, raccontavano di una tradizione che andava ancora più indietro, di generazioni..

Sia quel che sia, alla fine il curato aveva comperato Caterina dalla sua famiglia in cambio di un paio di indulgenze, una medicina contro la tosse (che a dir la verità aveva anche funzionato) e due oche grasse. I mormorii si erano sollevati all’istante, ma si erano placati altrettanto in fretta, quando cioè era diventato evidente a tutti che la bambina, perchè di bambina si trattava, veniva trattata come una figlia e non come una serva o peggio. E si sa, di diventare la figlia del curato era una fortuna che capitava a pochi.
Lì, aveva imparato a leggere e scrivere, il che era già molto. Aveva imparato anche a far di conto e pure quel che serviva per le faccende di uso corrente di quello che si chiamava geometria. Curioso come problemi e figure all'apparenza prive di connessione alla fine risultassero utili per calcolare, ad esempio, quanto vino ci potesse entrare in una botte o quanto tempo ci volesse per arare un campo. Con il tempo il curato aveva poi preparato dei veri percorsi “di istruzione”, così li chiamava, che iniziavano quasi sempre dai polverosi manoscritti stipati un po' dovunque nelle cassapanche di Santa Maria, per finire con le lezioni personali sue di lui, sul campo all'occorrenza. Ma anche all'incontrario, talvolta. Piano piano la curiosità della bambina si trasformò nell’impegno della donna che, come ci si sarebbe anche potuto aspettare, sbocciò in autentico talento per le scienze della natura. Caterina prendeva una manciata dalla medicina e dall’alchimia degli arabi, aggiungeva una pizzico dalla tradizione del Borgo, mescolava con un tantino di qualcosa che si era inventato lei, e quello che usciva fuori poteva sanare un malato, scatenare una rissa tra gli studiosi in visita, suggerire un nuovo concetto o distruggere un’opinione in chiunque fosse stato tanto incauto da aver prestato orecchio. All’età giusta Caterina si era fatta avanti con il giovane che aveva deciso di sposare fin da quando era bambina, e ovviamente per lui non c’era stato scampo alcuno (né desiderio di trovarlo, a dire il vero). Pochi mesi dopo era arrivata a Borgolavezzaro una piccola compagnia di mastri muratori che aveva tirato su dal giorno alla notte una graziosa casetta in un posto preciso a breve distanza da Santa Maria, per poi sparire senza neppure salutare. Era seguita una cerimonia, che includeva anche uno sposalizio, al cui termine Caterina e suo marito avevano preso possesso dell’immobile e vi si erano trasferiti con la ferma intenzione di mettere su famiglia. E ci erano riusciti. Gli anni seguenti avevano visto la coppia proseguire felicemente, per quanto è dato ai mortali di essere felici, il proprio cammino, allietato anche dalla nascita di quattro figli, due maschi e due femmine che in breve erano diventate il loro centro dell’universo. Al punto tale che perfino l’addio del curato alla chiesa e al paese tutto era passato alla storia come un fatto di banale normalità. Una domenica, al termine di una messa più intensa del solito, aveva annunciato la sua partenza. Il Vescovo di Novara avrebbe inviato un sostituto, aveva detto, ma non subito, e nemmeno presto probabilmente. La mattina dopo aveva chiuso Santa Maria e se ne era andato. Tutto qui. Come per magia i visitatori e studiosi avevano smesso di arrivare, ai fedeli si era provveduto con una soluzione itinerante (ma si stava pensando di costruire una chiesa nuova, meno eccentrica, magari) mentre per le questioni di vita quotidiana c’era Caterina che poteva fare da ottima supplente. Quando non era presa dai bambini, naturalmente.


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E intanto il tempo passava. Poi, quando nessuno lo aspettava più, il destino si fece vivo. Arrivò seduto su di un carretto, che si arrestò proprio davanti al cortile di casa. Il carrettiere fece per scendere, ma invece crollò a terra, come un sacco di castagne. Furono le bimbe a vederlo per prime e a correre al suo soccorso, per quel che potevano soccorrere delle bimbe di pochi anni. La più piccola filò a chiamare Caterina, che arrivò in un lampo con in cuore un cattivo presagio. Si chinò sull’uomo; puzzava di malattia, di morte. In fretta e furia fece mettere in piedi un riparo sotto cui alloggiarlo, rifiutandosi categoricamente di ospitarlo in casa. Il carretto fu bruciato sul posto con il suo contenuto di merci e provviste, cosa fossero non importava. Per un attimo si pensò di bruciare anche il cavallo, ma per sua fortuna alla cosa non venne poi dato seguito. Lo straniero non passò la notte, e all'alba seguì la sorte del suo trasporto nelle fiamme. Da quello che portava con sé e dalle poche parole comprensibili che aveva biascicato nel delirio si era riusciti a capire che faceva parte di una specie di carovana commerciale proveniente da Costantinopoli e diretta da Qualche Parte in Francia. E che mentre il grosso della spedizione aveva proseguito passando più a nord, lui e altri che si erano ammalati durante il viaggio avevano piegato un tantino a sud per trovare una leggendaria curatrice di cui si parlava fin dall’oriente. Caterina inviò il marito a Borgolavezzaro con l’imperativo di non avvicinarsi a nessuno e di ordinare, a distanza, che venissero inviati dei soldati o dei volontari a cercare e trovare il resto dei malati, vivi o morti che fossero. Si sarebbe dovuto bruciare i morti sul posto, e così tutti i loro averi, mentre i vivi dovevano essere caricati su di un carro e portati lì da lei, il tutto senza toccarli neanche con un bastone. Come fare non era problema suo, ma così andava fatto.
“Dì loro che ne va della loro vita, ma non temere, lo capiranno da soli non appena li vedranno.” Poi si diresse finalmente verso i suoi libri, cosa che avrebbe voluto fare da subito, per scoprire la natura della malattia e la cura che potesse debellarla. Ricordava vagamente di aver letto da qualche parte che ai tempi di Giustiniano, circa 740 anni dopo la nascita di Cristo, una piaga dai sintomi non dissimili aveva colpito Bisanzio e l’Impero d’Oriente, sterminando più o meno la metà della popolazione in pochi anni. Si era poi propagata in Occidente attraverso Genova e Marsiglia e poi verso i territori Iberici dei Visigoti, causando altrettanti danni ed altrettanti lutti. Non si sapeva come si propagasse, c’era chi diceva attraverso lo sporco, chi attraverso l’unzione e la magia, altri ancora sostenevano fosse una corruzione del sangue causata dal morso dei topi o delle pulci. Di fatto era inarrestabile, e, quel che peggio, non c’era cura. Però poteva essere contenuta, e comunque, fin che c’era vita c’era speranza.

I soldati tornarono con due superstiti, e controllato che tutto fosse stato fatto come ordinato, Caterina consegnò ai poveretti la lista delle contromisure da prendere in paese e sul territorio tutto e li rispedì indietro con il diavolo alle calcagna. Preparò i medicamenti che poteva preparare, per calmare la febbre, placare i dolori, pulire le piaghe. Preparò tutto quello a cui poteva pensare, e poi altro ancora. Quindi aspettò, perché altro non si poteva fare. Ma quando accade il prevedibile fu evidente che nessuno poteva essere pronto per quello. I superstiti, tutti, morirono in un paio di giorni. Poco dopo caddero ammalate le bimbe. Quindi i maschietti, e poi lei. Lavorò finchè la febbre e la stanchezza glielo permisero, sperimentando cure, setacciando i testi, facendo tutto quello che poteva per alleviare le sofferenze dei suoi bambini. Supplicò l’Onnipotente e tutti gli Dei che conosceva, pregò, maledì, cercò di barattare la vita dei suoi figli con qualsiasi cosa potesse offrire, tentò riti proibiti e pratiche dimenticate, alla fine cadde sul posto dove si trovava a metà di una frase e l’incoscienza l’accolse.

Si svegliò nel suo letto, madida di sudore ma viva. E sicuramente più in salute di quanto non fosse stata prima di.. prima di quando? Quanto tempo era passato? Provò ad alzarsi, ma la stanza prese a girare tutto intorno. Accanto al letto qualcuno aveva messo del pane vecchio, della frutta secca una grande brocca ben chiusa.. Chiamò, ma non rispose nessuno. Muovendosi con estrema cautela riuscì ad aprire la brocca e prese un po’ di acqua. Santo cielo, probabilmente non beveva da giorni. Si sforzò anche di sbocconcellare un po’ di cibo e poi, visto che ancora nessuno rispondeva, si fece forza e si sollevò in piedi. Fu allora che vide la lettera. Era appoggiata sull’unica sedia della stanza, su di un cambio di abiti puliti. Con il terrore nel cuore Caterina arrivo a prenderla ed ad aprirla

“Amore mio, non so quando leggerai questa lettera ma sono certo che finirai per leggerla. Sono passati sette giorni da quando sei caduta in questo sonno terribile, ma posso vedere che stai finalmente migliorando e che quindi sicuramente ti rimetterai, non può essere altrimenti. Per prima cosa volevo assicurarti che ho pensato io ai bambini per tutto il tempo dovuto, e che quando sono venuti gli angeli a prenderli non erano da soli. Hanno chiesto spesso di te nella febbre e qualche volta li ho portati al tuo letto così che potessero vedere che eri lì. Non so se ho fatto bene ma dopo sembravano più sereni. Alla fine ho provveduto a loro come mi avevi detto di fare e ho anche messo quattro croci con i loro nomi nel giardino, sotto al salice. Lo so che non ha senso, ma mi sembrava giusto farlo. Ti devo anche dire che quando ti sveglierai io non ci sarò. La malattia, o quello che è, alla fine sta reclamando anche me, e con molta più fretta di quanto non abbia fatto con gli altri. Io credo che sia perché devo prendere il tuo posto, ho pregato a lungo per questo ed alla fine il Signore deve avere deciso di concedermi questo dono. Anche per questo sono felice, e me ne andrò felice di tutto quello che è stato della mia vita, e anche di più. Spero che il sistema che ho pensato per disporre di quello che resterà di me, che non è più un granché ormai, funzioni a dovere, e che a San Pietro non dispiaccia dopo tutto di dovermi accogliere un tantino bruciacchiato. Ti lascio accanto al letto qualcosa per rimetterti in forze quando ti servirà, mi spiace di non potere fare di più ma per me è ormai quasi arrivato il momento di partire. Ti aspetterò lassù con i bambini, spero, e se quando arriverai invece non mi troverai ad aspettarti, sappi che io ti ho amato con tutte le mie forze e continuerò a farlo ovunque mi trovi.
Tuo per sempre, Giovanni.”

Caterina non pronunciò una parola e non versò una sola lacrima per tutto il tempo. Finì il cibo e bevve l’acqua. Uscì all’aperto, era giorno. Senza degnare di uno sguardo i resti del grande falò che ingombravano l’angolo del cortile arrivò fino all’abbeveratoio, si lavò e indossò il cambio di vestiti. Poi si incamminò verso il cancello che chiudeva il cortile, e passò oltre. Prese il sentiero che conduceva al salice, ma superò anche quello senza nessuna esitazione e sparì alla vista, nel fitto del bosco. La notte stessa la casa e la chiesa di Santa Maria presero fuoco e bruciarono fino alle fondamenta e oltre. Bruciò l’altare e la cripta, bruciarono travi e pietre, antiche o moderne che fossero. Bruciarono libri, mobili ed attrezzature. Bruciò il ferro, bruciò l’ottone, si consumarono persino il focolare, la fucina. I paesani che erano accorsi a prestare aiuto, infrangendo le regole imposte dalla Guaritrice e dalla loro stessa paura del contagio, non poterono nemmeno avvicinarsi al luogo dell’incendio, respinti da un calore che incendiava le vesti e faceva fumare la pelle a cento passi distanza. Alle prime luci dell’alba il fuoco si estinse in un solo istante, come la fiamma di una candela al vento. Della casa e della chiesa non erano rimaste tracce; solo uno spiazzo vuoto, annerito dalle fiamme e già freddo come la notte che se ne era appena andata. I Borgolavezzaresi se ne tornarono in paese in tutta fretta, ben felici di allontanarsi da quel luogo stregato senza avere alcuna ragione per doverci tornare. Con il tempo prati e boschi avrebbero preso nuovamente possesso del posto, completando l'opera del rogo. Certo, Santa Maria sarebbe stata ricostruita, forse lì o forse altrove, perché dopotutto il posto e le ragioni per costruire le chiese non le scelgono gli uomini. Ma della vecchia costruzione non sarebbe rimasto neppure il ricordo.

Nessuno vide più Caterina, o sentì parlare di lei. Con quel nome, quantomeno, perché più o meno nello stesso periodo incominciò a spargersi la voce che nel bosco, intorno a Borgolavezzaro, vivesse una strega..


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PARTE TERZA
Era estate, faceva caldo ed era decisamente una splendida giornata. Agnese aveva portato i bambini giù all'Amalia, a lavare. Non una cosa che amasse fare, invero. C’era sempre il rischio che qualcuno finisse dove non toccava. Ma lì l’acqua non arrivava neanche a coprire il ginocchio e la corrente era dolce come una brezza. In più, il Borgomastro aveva fatto sistemare uno scivolo di sabbia e ghiaia che scendeva fin nel letto della fontana, così che restasse più facile entrare e uscire anche carichi di secchi e mastelli. A questo punto per correre per davvero dei rischi uno doveva proprio metterci del suo e con un sole così tenere lontani i bambini dall’acqua era praticamente impossibile. Ugualmente, però, Agnese non era tranquilla. Non era l’acqua a farle paura, oggi. Era il bosco. Perché nel bosco, si diceva, qualcuno aveva visto una strega. Era stato un attimo, il più delle volte: un’ombra che si muoveva nell’ombra, l’eco di una voce maligna lungo il sentiero. Ma c’era anche chi sosteneva di averla vista per bene, di averle parlato addirittura, e di averne avvertito in un modo o nell’altro la forza e la malia. Tra lupi e briganti, viaggiare era pericoloso di quei tempi e quelli che lo facevano di solito non erano sempre del tutto a posto con la testa. O con la coscienza. In ambo i casi, non proprio gente a cui dar retta alla cieca. Però ne parlavano in così tanti che qualcosa sotto doveva esserci. Ecco perché continuava a scrutare il limite della foresta, che di recente era stata fatta arretrare di parecchi metri dal limite della fontana. Come a dire che qualcosa sotto doveva proprio esserci. Ed ecco perché quando la strega arrivò da un’altra parte, Agnese non la vide.. Sentì solo un profumo, un profumo dolcissimo che portava alla mente il Natale, il primo bacio, le risate con le amiche, tante cose tutte buone. Sentì un gran sonno crescere dentro di lei, gli occhi che si facevano pesanti, la voglia di perdersi dentro a quei ricordi. E così fece, abbandonandosi ai sogni più belli della sua vita, sogni di cui poi le sarebbero rimaste poche memorie ed un vago senso di perdita. La strega passò oltre. “Bambini!” chiamò, “Venite, venite a guardare.. Ho qui una meraviglia che nessun altro ha mai visto prima d’ora. Venite, venite qui..” Ora, bisogna dire che la strega non assomigliava affatto ad una strega, non a una di quelle di cui si racconta in giro quanto meno. Per giunta, nessuno aveva detto ai bambini del possibile pericolo, per non spaventarli. Non si fa sempre così, salvo pentirsene dopo? “Guardate,” continuò “le costruiscono i maestri di Cartagine con il ferro delle miniere dell’Atlante. I colori sono fatti con le sabbie del grande Erg orientale e dentro c’è il frammento di una stella caduta dal cielo.. Guardate.. “ I bambini non sapevano neppure dove fossero Cartagine o le miniere dell’Atlante, e poi si stavano divertendo troppo nell’acqua della fontana perché gliene importasse qualcosa.. Ma nel palmo della mano protesa della signora che li stava chiamando c’era un giocattolo che davvero nessuno aveva mai visto prima, che si muoveva da solo, e luccicava, e sembrava danzare su di una musica che sentiva solo lui. Anzi, a pensarci meglio adesso la sentivano anche loro, lieve lieve, e c’era anche un profumo che sapeva di miele, di Natale, di tante cose buone. Lentamente si avvicinarono e mentre si avvicinavano il giocattolo danzava sempre più in fretta, e luccicava sempre di piu…

“Strega!” gridò l’armigero appena svoltata la piega del sentiero. “Strega!” ripeté sguainando la spada e lanciandosi verso l’incantatrice ancora circondata dai figli di Borgolavezzaro. Dietro di lui comparve un drappello di guardie, che al grido di “Strega!” sfoderarono le armi a loro volta e si unirono alla corsa. Senza scomporsi più di tanto il loro bersaglio balzò fuori dal cerchio dei ragazzini e in un unico, rapido, movimento fu dall’altra parte della fontana. Sembrava quasi avesse volato sull'acqua, senza neppure bagnarsi i sandali. Prese qualcosa dalla borsa che portava alla tracolla e la lanciò nella corrente, una manciata di polvere scintillante. All’istante l’acqua dell'Amalia si trasformò in sangue, o almeno in qualcosa che ne aveva sembianze, odore e consistenza, lasciando i soldati atterriti inchiodati sull’altra sponda. “Siete fortunati uomini d’arme.” disse loro la strega con una voce che faceva tremare le gambe. “La vostra ora non è ancora arrivata. Ma non tentate troppo la fortuna, potrebbe anche stancarsi di voi.” Quindi si voltò e rientrò nel bosco, scomparendo alla vista. A nessuno passò per la mente di seguirla.

- Siete sicuri che fosse Lei? – domandò il borgomastro.
- Donadio dice che sembrava Lei. E anche che era completamente diversa. – rispose il capo delle guardie.
- E allora ?
- E allora è impossibile darlo per certo. Però Donadio la conosceva bene..
- Cosa pensi di fare?
- Possiamo chiedere rinforzi a Novara e setacciare la foresta..
- A che scopo? Non la troverete mai così.
- Non ho detto che l’avremmo trovata. Ma è un tentativo da fare.
- E dopo?
Il capo delle guardie si strinse nelle spalle. - Possiamo bruciare il bosco. –
- Ma è una follia! – Esclamò il borgomastro picchiando il pugno sul tavolo.
- Ed è anche una follia inutile, al momento, visto che non sappiamo neppure in che direzione cominciare.. - replicò il soldato.
L’altro restò a pensare per un po’. - Come stanno i bambini?
- Il medico dice che stanno bene. Per quel che vale.. -
- Nessuna conseguenza ? -
- Più o meno..
- Che vuol dire “più o meno”?
- Non so, è solo che..
- Che cosa? - Incalzò il Borgomastro..
- E’ che non ridono. Non ridono più..
- E che vuoi che sia, saranno ancora spaventati no? Lo saresti anche tu se avessi visto una strega.
- Io sono spaventato, anche se non l’ho vista. Ma non credo che sia tutto lì.
- Vedrai che non è nulla… - ci fu un’altra pausa, povera di convinzione. Poi proseguì - Per ora non facciamo niente, va bene? Niente rinforzi, niente incendi. Aumentiamo la guardia intorno al paese, raddoppiamo le ronde e aspettiamo. Tutto sommato non ha fatto male a nessuno per ora. E magari non lo farà proprio. Oppure riusciremo a pizzicarla. Se le cose dovessero cambiare, vedremo..
- E se fosse lei?
Il borgomastro scosse la testa - Siamo tutti in debito. Tutti quanti. Se la Morte Nera ci ha solo sfiorato mentre altrove ha sterminato popoli e razze intere, lo dobbiamo a lei. A quello che ci ha insegnato.-
Nessuno dei due uomini aggiunse altro. Nessuno sapeva cosa dire.

Un po' più a est, ma neanche tanto, c'era un posto dove il bosco cresceva con più difficoltà. Le querce, e c'erano quasi solo querce, erano più rade, il sottobosco mancava del tutto, perfino l'erba stentava. La terra, a veder bene, era quasi tutta sabbia, sabbia lasciata lì da un fiume di cui non era rimasta altra traccia. Sul sabbione faceva caldo, più caldo che altrove, perchè il sole riusciva a passare e la sabbia poi lo tratteneva. L'acqua era scarsa e quel poco che c'era non era un bel vedere. Insomma, a voler essere buoni, era un posto inospitale. Tuttavia, un viaggiatore che si fosse trovato a passare da quelle parti avrebbe anche potuto notare che uno dei mucchi di sfasciume che infierivano qua e là sul paesaggio non era affatto, in realtà, un mucchio di sfasciume. Non uno naturale, quantomeno. Se avesse poi deciso di avvicinarsi a guardar meglio, avrebbe scoperto che c'era addirittura un focolare al centro del mucchio, e una capanna vera e propria tutto intorno, nascosta tra le vecchie frasche ed i rami morti. Avrebbe altresì trovato una quantità incredibile di altre cose bizzarre dentro e fuori la capanna medesima, a cominciare dai libri e dalle cianfrusaglie sparse in ogni dove per finire con gli strani oggetti luccicanti piazzati in bella vista, e che sembravano addirittura brillare di luce propria. Erano una meraviglia, e solo a guardarli mettevano di buon umore. Se poi, colto dall'incanto di quegli oggetti evidentemente magici, si fosse accostato abbastanza, avrebbe perfino potuto sentire una lieve musica venire da loro, una melodia leggera che ricordava le risate dei bambini. Ma sarebbe probabilmente stata l'ultima cosa che avrebbe sentito, perchè quello era il covo della Strega, e a baloccarsi con i giocattoli di una strega c'era sempre un conto da pagare..


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PARTE QUARTA
Dovete sapere, dicevo, che a quel tempo in Borgolavezzaro viveva una strega. Una striä, come dicevano quelli del posto. Non proprio in paese, a dire il vero, ma appena fuori. Nel bosco. Il suo rifugio era stata trovato per caso, cercando invece un allevatore che non aveva mai fatto ritorno dalla fiera di Lomello. Si era rinvenuto il suo carretto abbandonato sul bordo della strada, con ancora i proventi delle vendite ed un po’ di carabattole comperate in città. Da lì i suoi amici avevano poi seguito un minuscolo sentiero, appena appena visibile, che si dirigeva verso i sabbioni all’interno. Si erano poco dopo imbattuti in un tugurio seminascosto dalla boscaglia, e intuito chi ne fosse il padrone se l’erano data a gambe. E di gran carriera, perché l’amicizia è una bella cosa, ma la pelle di più. Nessuno era più riuscito a trovare carretto, sentiero e capanno, benché le guardie del Borgo avessero poi passato a setaccio l’intera zona, e più di una volta per giunta. Non ci voleva di certo un dottore per capire che qualche sortilegio doveva essere stato messo a guardia del luogo, ora. Altra gente, negli anni, era finita per caso sul sabbione, e molti erano anche tornati a casa a raccontarlo. Ma nessuno era più riuscito a ritrovarlo di proposito. Si tentò anche di dar fuoco a tutta quell’area del bosco, come i soldati avevano a suo tempo suggerito. Al termine dell’incendio si era poi scoperto che una vasta zona della foresta era rimasta intatta, senza neanche un segno o una bruciatura. Neppure una piccola piccola. Si provò allora a ripartire da lì, per scoprire che, semplicemente, le fiamme non prendevano. Cioè bruciavano le torce, e anche il legname fin lì portato. Bruciava l’olio, e bruciavano pure gli incendiari, in caso. Era capitato. Ma la foresta no, non c’era verso. Finito il combustibile d’importazione le pire si estinguevano, e questo era quanto. Allora tutti gli uomini disponibili si allinearono su di un lato del di quel bosco ininfiammabile e lo attraversarono completamente, da una parte all’altra. Ma non trovarono nulla, e, finalmente, abbandonarono l’impresa. Tutti quanti, semplicemente, impararono ad evitare accuratamente quel tratto di foresta, che da qualche parte all’interno ospitava il sabbione che era ormai diventato “Il campo della Strega”. Per contro, purtroppo, la strega non sembrava altrettanto restia ad addentrarsi in Borgolavezzaro. Altri bambini l’avevano incontrata, avevano subito il suo strano incanto e dal qual momento si erano ritrovati incapaci di sorridere, o di divertirsi, o di fare e pensare tutte le belle cose che fanno o pensano i bambini. Avevano persino smesso di crescere: erano rimasti là, congelati nel sortilegio, tristi e desolati oltre ogni possibilità di salvezza.
E triste e desolato stava diventando anche il paese, per le cui strade non circolava più anima viva che non ne avesse estrema necessità. Le osterie erano perennemente vuote, e anche la chiesa per dirla tutta. Ci si muoveva armati, con circospezione, nel timore di girare l’angolo sbagliato al momento sbagliato. E fu proprio questa atmosfera di diffidenza e timore che accolse, un mattino come un altro, un viaggiatore che veniva da lontano. Portava degli abiti da che sembravano messi insieme comprando qua e là lungo la via, e portava un bagaglio estremamente ridotto. Si diresse verso la locanda del Mulo Impuntato con la sicurezza di chi ci era già stato prima, e non di rado. Sembrava chiusa. Provò la porta: era aperta, invece. All’interno non c’era praticamente nessuno. L’uomo affrontò con indifferenza l’esame dei pochi astanti. Qualcuno sembrò sul punto di rivolgergli un saluto, come se avesse avuto l’impressione di averlo già visto o conosciuto da qualche altra parte. Ma poi non ne fece nulla. Il viaggiatore attraversò la sala comune e si piazzò al bancone, ordinando quello che serviva per avere una ragione per rimanere lì. Locande ed osterie erano da sempre i luoghi più adatti per raccogliere informazioni, e anche quelli dove restava più gradevole farlo. Questa volta, ad ogni modo non c’era molto da capire: finito il pasto, si alzò e uscì dal locale, quindi dal paese.
Caterina, sola davanti al rifugio, stava giocherellando con gli amuleti mercuriali. Lo faceva in continuazione, erano l’unica cosa che le regalasse un minimo di sollievo. Per un po’, almeno. Metterli insieme aveva richiesto tutta la conoscenza di una vita, e comunque anni ed anni di tentativi ed errori. Nessuno avrebbe più potuto restituirle il sorriso dei suoi figli, ma la trappola di Hayyân chiusa negli amuleti le avrebbe quantomeno dato quello dei figli degli altri. Restava lì a rimirarli per ore, ad ascoltare le risate tintinnanti che provenivano dal centro delle luci. E la musica filosofica, che si diceva fosse stata suonata anche da Pitagora, nella sua scuola di Crotone, una ed una sola volta. Come tutti, anche lei avvertiva la seduzione delle fragranze che l’amuleto ricreava con i desideri degli altri, e nel suo caso non poteva essere altro che il profumo dei suoi figli. E del suo Giovanni.. come avrebbe desiderato potersi appoggiare alla sua spalla e addormentarsi ancora una volta, come amava fare un tempo. Per sempre magari. Improvvisamente un rumore la riscosse dalle sue meste fantasticherie. Qualcuno aveva infranto la sua fattura di confusione.
- Allora è questo che fai, adesso.. - domandò una voce proprio di fronte a lei.
Caterina osservò l’uomo con rabbia. - Ti vedo più giovane, vecchio. Barba e capelli si sono allungati, ma sono tornati più neri di quanto non ricordi di averli mai visti. Hai forse fatto un patto con l’Avversario? -
- Se c’è una persona qui in odore di oscure amicizie non sono certo io, ragazza. E neanche tu, a mio parere. - rispose quello.
- Non sono più una ragazza, vecchio, e il tuo parere te lo puoi tenere per spenderlo in qualche posto dove importi a qualcuno…
- Una volta importava a te..
- Sono successe tante cose da allora - c’era una chiara nota di nostalgia in quest’ultima affermazione. - Cosa sei venuto a fare qui, dopo tutto questo tempo?
- Sono venuto a vedere come stai, mi sembra ovvio.. Perché girano un sacco di voci a proposito di questo bosco, su al nord..
- Ma guarda, un po’. E cosa si dice “su al nord”?
L’uomo sorrise. - Si dice che questo bosco sia infestato da una strega. Ma io non ci credo.. Tu hai mica visto niente, qui intorno? -
Caterina non rispose. Si raddrizzò sulla schiena e sembrò di parecchio più alta di quanto l’uomo ricordasse. Poi lo fissò dritto negli occhi
- Non riuscirai a fermarmi, vecchio - ammonì, e questa volta c’era l’acciaio nella sua voce.
- No, lo so. E non ci proverò neppure: lo faranno loro. - avanzò di un passo, lentamente. Fece forza sul bordone su cui si appoggiava, fino a piantarlo saldamente nel terreno. Poi si voltò, e senza proferire parola si incamminò in direzione del bosco, sparendo alla vista in pochi minuti e lasciandosi alle spalle la più sbalordita delle streghe..

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PARTE QUINTA
Era tutta la mattina che Caterina stava tentando di ignorare il bastone. Con un certo successo, si potrebbe dire. Aveva provato a sradicarlo dal terreno con ogni mezzo, fisico e non, senza risultato. Si era immersa poi nei suoi testi per scoprire quale sortilegio o minaccia potesse comportare quel pezzo di legno piantato nel suolo. Aveva trovato più bastoni magici o stregati di quanto avesse bisogno, ma nessuno di questi sembrava rassomigliare a quello ficcato davanti alla sua capanna o comunque adattarsi alla presente situazione. Aveva quindi deciso di non dargli soddisfazione, e comportarsi esattamente come se non esistesse. Adesso però, notava, c’era qualcosa appoggiato sulla sua sommità. Si avvicinò per dare un’occhiata: era una libellula, una sciurä-sciurötä come si diceva lì. Piccolina, si faceva quasi fatica a vederla. Era una di quelle blu, piuttosto comuni dove c’è un po’ di acqua. Lì però non ne aveva mai viste. Continuava ad alzarsi dal bastone, restava sospesa in aria per qualche secondo e poi tornava a poggiarsi. E poi si rialzava, irrequieta. D’istinto, Caterina offrì il proprio indice puntato in alto verso il cielo. Come faceva da bambina, come facevano tutti i bambini. Le libellule blu non si posavano quasi mai sulle dita, ma quella, come se non stesse aspettando altro, si trasferì senza esitazione. Caterina la avvicinò lentamente al viso, sperando che non se ne andasse. Era bellissima, luccicava come se fosse fatta di vetro o metallo. Teneva le ali chiuse, di un blu ancora più intenso, talmente forte da ricordare gli zaffiri di Taprobane o i veli dei berberi della Targa. Dense e nervate al corpo, terminavano in estremità quasi trasparenti, come se fossero fatte solo di aria e colore. Sembrava impossibile che una struttura così esile e diafana fosse invece tanto potente e robusta da farne un temibile predatore. Temibile per un insetto, si intende. Mentre stava ancora ammirando quel prodigio della natura si accorse che un altra sciurä-sciurötä aveva preso posto sul bastone. Questa era più grande, e aveva i colori delle salamandre. Da piccola Caterina aveva sempre avuto un po’ di paura delle libellule grandi. Le imperatrici. O le regine, come si chiamavano. Mordevano, anzi, mordicchiavano, e uno ritirava la mano più dallo spavento per l’inattesa reazione che non per il dolore. Però c’erano anche bambini che raccontavano storie terribili a proposito, storie che mettevano paura. Magari c’era qualcosa di vero, non si sa mai. Nondimeno, questa volta alzò invece la mano e la invitò a salire. E quella salì, prendendo posto a fianco dell’altra. Un paio di dita a fianco, un po’ di spazio ci voleva perbacco. L’appoggio lasciato vacante sul bastone non restò libero a lungo. Fu una libellula dal ventre rosso come il fuoco, un cardinale, ad occuparne lo spazio. Caterina si guardò intorno, a metà tra la confusione e la meraviglia. Per ogni dove ciascun arbusto, ramo, piolo, sostegno, asta o bacchetta qualsivoglia ospitava una sciurä-sciurötä, qualche volta in competizione per la piazza con una o più sorelle. Ce ne erano letteralmente dappertutto, azzurre come il turchese dei Persiani, oppure verdi come gli smeraldi. Gialle, rosse, con le ali scure o chiare, aperte o chiuse, piccole, grandi, di tutti i tipi. Caterina si trovò involontariamente trasportata alla propria infanzia, quando l’arrivo delle libellule segnava l’inizio del grande caldo dell’estate, e ci si trovava nei campi ed in riva ai fiumi per catturarle, per giocare con loro. Crudelmente, a volte, come solo i bambini sanno fare senza pensarci su. Si vide insieme alle amiche a rincorrerle nei prati o tendere agguati negli orti. Però questa volta c’erano dei bambini che non giocavano. Se ne stavano in disparte, silenziosi, tristi, ad osservare. Caterina si avvicinò e mentre lo faceva sentì un brivido salirle lungo la schiena. Erano i suoi figli quei bambini. Erano lì in prima fila che la guardavano, con aria di disapprovazione. Ma non erano soli, dietro a loro ce ne erano altri, moltissimi. Venti, forse, o trenta. Forse di più. E tutti stavano lì a guardare proprio lei, tristi, desolati. Non giocavano, non parlavano, non ridevano. Sembravano incapaci di faro. E allora capì: erano i bambini a cui lei aveva preso il riso, l’allegria. Si portò le mani alla faccia per non guardare e le libellule volarono via. Arretrò di un passo, poi non ce la fece più e crollò sulle ginocchia. E pianse. Pianse senza potersi fermare, pianse per la prima volta da quando la peste le aveva rubato la vita. Due braccia amiche la strinsero forte.
- Su, su piccola… Vedrai che adesso andrà tutto bene. - In qualche momento del carosello il viaggiatore doveva essere tornato. Lei tentò di asciugarsi il viso nel vestito, poi sollevò il volto per guardarlo negli occhi..
- Dio mio, cosa ho fatto, cosa ho fatto.. - singhiozzò.
- Hai fatto delle brutte cose, piccola, ma a quasi tutte c’è rimedio per fortuna.. -
- Ho fatto del male a così tanta gente. -
- E per quelle a cui non c’è rimedio - continuò l’uomo imperturbato - troveremo un modo di compensare, se Dio vorrà. -
- Compensare? E come? -
- Sei una persona buona, mia cara, e anche quando hai fatto del male lo hai fatto in fondo da persona buona. Il passato non può essere cambiato, ma cercheremo il modo di cambiare il futuro, almeno. E pregheremo perché possa bastare..
Quando i bambini di Borgolavezzaro ricominciarono a ridere, tutti quanti capirono che la strega doveva essere morta, o qualcosa del genere. E tirarono un bel sospiro di sollievo. Immediatamente dopo, poi, in paese ci fu un’autentica invasione di libellule. I bimbi che erano rimasti vittima dell’incanto della strega furono i primi scendere in strada a rincorrerle, acchiapparle e rilasciarle. Sempre curando di non far loro del male, il che era piuttosto strano ma non più di tanto, dopotutto. In breve, comunque, l’atmosfera di festa, conquistò tutti e il paese si ritrovò tutto di un colpo nuovamente vivo e scalciante. Corri di qui, insegui di là, qualcuno si addentrò fin nel bosco, che è vero che ormai non faceva più paura, però non si sa mai... Si decise quindi di dare un’ultima controllata, e, proprio a poca distanza dal paese, i soldati si imbatterono in uno schiaro, una radura, di cui nessuno aveva memoria e che sembrava ospitare tutte le libellule del mondo, ma proprio tutte. In mezzo allo spiazzo c’era una capanna, e solo a guardarla uno si sentiva a proprio agio. Nella capanna viveva una donna, che a qualcuno ricordava la ragazza che aveva un tempo abitato vicino alla chiesa di Santa Maria, ma era completamente differente. E ai pochi che l’avevano vista, ricordava molto anche la strega. Ma era completamente differente. Comunque, solo a guardarla uno si sentiva a proprio agio e quindi si decise che la questione non era poi così importante. Le domandarono se lì intorno avesse visto una strega, ma la domanda sembrò talmente bizzarra già mentre veniva formulata che nessuno si stupì quando lei non rispose. Anche perché, nel frattempo erano arrivati i bambini che ovviamente dovevano aver ignorato gli ordini degli adulti e avevano seguito fin lì le libellule. Così la spedizione militare divenne una festa vera e propria e la cosa finì lì.
Caterina non era felice, probabilmente non lo sarebbe stata mai più. Però sentiva di star facendo qualcosa di buono, e che sapeva di buono, anche. Questo le bastava, tutto sommato, per restare almeno serena. Gli anni erano venuti e se ne erano andati. Come le persone del resto. Tra poco, però, sarebbe tornato in visita il suo vecchio amico, non sapeva come facesse a capirlo, ma non si era mai sbagliata. Era rimasto ormai l’unico a conoscere la sua storia, a chiamarla per nome. Con il suo vero nome. Di solito si fermava per qualche tempo, e quel tempo era quanto di più simile alla felicità fosse più riuscita ad provare, ormai. Anche perché, non aveva mai osato dirglielo, quando c’era lui lì al sabbione lei riusciva a volte a vedere i suoi bambini. E anche il suo Giovanni, seppur più raramente. Li scorgeva con la coda dell’occhio, nei posti dove maggiormente si assembravano le libellule. Impossibile dire quale magia fosse conseguenza dell’altra, e in fondo cosa contava, ormai? Sembravano anche loro sereni, forse la stavano attendendo e questa era l’unica cosa che avesse importanza. Aspettava con impazienza l’arrivo del vecchio, ma da sempre sapeva che ogni cosa doveva accadere nel tempo a lei assegnato, bisognava aver pazienza. E allora si voltò verso il primo paziente della giornata: - Dai, fammi vedere questo taglio...
Dovete sapere, in totale, che a quel tempo in Borgolavezzaro viveva una curatrice. Nessuno sapeva da dove fosse venuta o come fosse capitata proprio lì. E perché. Ma di fatto, era stata una fortuna. In un modo o nell’altro aveva salvato la pelle ad una buona metà del paese e comunque dato una mano anche al resto. Potevi andare da lei se non stavi bene, ma anche se avevi invece qualche altro problema. Se ti serviva un parere, un consiglio, o anche un piccolo prestito per uscire da un brutto inverno o da una brutta situazione. Insegnava a leggere e scrivere a chi desiderasse imparare, e anche a far di conto se uno se la sentiva. Una benedizione insomma, ci fosse stata più gente così il mondo sarebbe stato senz’altro un posto migliore. Tutti la chiamavano la Signora, e di fatti era una Signora per davvero, di quelle che muovono le montagne con un occhiata e conquistano i cuori con un gesto. Viveva da sola, nel bosco, ai margini un sabbione che era stato trovato quasi per caso durante l’invasione delle libellule. Per lei o per le libellule che ci avevano abitato ai tempi, il posto era stato chiamato “il Campo della Signora”; della “Sciura”, come si dice lì…Se passate da Borgolavezzaro non dimenticate di andarlo a visitare. Potreste rimanerne stregati.
PS. Per chi se lo stesse chiedendo, alla fine era stato ritrovato anche il viaggiatore scomparso. Era tornato proprio pochi giorni dopo la fine dell’invasione delle libellule, a piedi e nudo come un verme. Una mano davanti e una didietro. Aveva dichiarato di non ricordare nulla dei mesi trascorsi, di dove fosse stato e che cosa avesse fatto. Poi, mentre parlava, aveva acchiappato una mosca al volo e se l’era ficcata in bocca, mandandola giù con gusto. Nessuno aveva voluto indagare oltre.


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Scritto con l'inestimabile aiuto di Gianbattista Mortarino, poeta e contadino tutto insieme.
Illustrazione di Eugenio Bausola

"Il Campo della Sciura" by Fabrizio Burlone is licensed under a Creative Commons Attribuzione-Non commerciale-Non opere derivate 2.5 Italia License.

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