Questa storia inizia tanti, tanti anni fa, in una contrada di cui oggi si è addirittura persa la memoria ma che se esistesse ancora si troverebbe giusto a cavallo tra il Piemonte e la Lombardia, a breve distanza dalle sponde del grande fiume Po. Signore e padrone di quella contrada, all'epoca, era un Nobile di cuore buono, allegro e gioviale e che teneva in gran conto le terre che il sovrano e la fortuna gli avevano dato da governare. Proprio al centro di esse giaceva un piccolo lago, e, sulle rive del lago, la Grande Garzaia, perla del regno, gioia e diletto del Nobile in questione. Quando gli oneri del comando allentavano la loro morsa di un tantino, o magari proprio quando la facevano invece sentire con maggior vigore, l'uomo saltava in sella e si recava fin sull'argine che dominava la Garzaia, per osservare i grandi uccelli che lì vivevano e nidificavano. C'erano i maestosi Aironi Bianchi, dal brillante becco giallo, e le loro più piccole cugine, le Garzette, graziose ed eleganti nelle loro lunghe, candide piume che fanno da strascico ed anche da acconciatura. C'era il grande Airone Rosso, dal lungo collo di drago. E le Nitticore, dall’occhio di fuoco. C'erano le Sgarze dal Ciuffo, bionde come le dame del Nord che ti fissano severe dagli
arazzi del castello. C'era il Tarabuso, o almeno così si diceva. Se ne sentiva a volte il muggito, che suona come il vento che soffia in un anfora o in una bottiglia. Ma a vederlo lui non lo aveva mai visto. C’era il Mignattaio dal becco ricurvo, nero come la notte ed iridescente come una pietra preziosa. E l’Airone Guardabuoi, di certo il più buffo della famiglia con quella strana espressione di eterno stupore dipinta in faccia. E le Sterne, le Tortore Selvatiche, i Cormorani, il Rigogolo e il Cuculo, la Poiana ed il Picchio, i Gruccioni, le Rondini e chissà che altro nel folto della boscaglia. Era uno spettacolo meraviglioso. Se nel giardino dell’Eden ci fosse stata una garzaia sarebbe stata proprio come quella che il Padreterno aveva messo sulle sue terre, quella almeno era la sua opinione. Con il volgere degli anni la fama della Grande Garzaia crebbe al punto tale che perfino il Duca di Milano volle venire a vederla, e riconosciutone il valore emanò leggi per proteggerla e inviò architetti e studiosi per migliorarne comprensione e godimento. Forse per curiosità, forse per spirito di emulazione, o magari perfino per vero interesse, gli abitanti dei villaggi del circondario presero anche loro a frequentare l’argine che dava sulla Garzaia. Quelli che messo insieme il pranzo con la cena avevano ancora del tempo da perdere, s’intende. Cosa mai comprendessero di quanto da lassù si poteva vedere non ci è dato di saperlo. Infastidito dal crescente afflusso di visitatori il Nobiluomo fece porre delle recinzioni tutto intorno al possedimento, chiudendo così anche la maggior parte delle vie di accesso, ma l’espediente sembrava scoraggiare solo quelli già poco convinti di loro. Allora mise armigeri di guardia all’ingresso e lungo tutto il perimetro ma c’era sempre un sacco di gente che doveva comunque essere lasciata entrare. Gli inviati del duca, per dire... Gli uomini di scienza. Le autorità più o meno locali, ancora. E infiniti altri che un modo o una ragione l’avevano o pensavano di averla, il che era anche peggio. E allora piantò siepi, drizzò barriere, costruì palizzate e addirittura innalzò muri e muraglie a protezione del suo angolo di eden, sbarrando poi i cancelli, bloccando le porte, cacciando fuori il mondo e cacciandosi fuori da esso. Il guaio è che il mondo, da che mondo è mondo, se si mette in testa che una cosa è sua poi non c’è più verso di togliergliela. Gli studiosi respinti, e a calcioni per giunta, fecero sentire la loro voce presso il Duca, ed altrettanto fecero nobili, notabili, banchieri, ufficiali ed autorità preposte, tutte indistintamente rispedite al mittente. Nel circondario i borghesi protestarono presso le corporazioni, i fedeli con i preti ed i preti con i vescovi ed i cardinali. I poveracci non protestarono con nessuno, perchè non avevano nessuno presso cui protestare, però entrare nella Grande Garzaia ed uscire con una prova del misfatto diventò in breve una specie di prova di coraggio per giovani e bravacci dei dintorni. Il vaso traboccò quando ci scappò il morto, perchè in questi casi il morto ci scappa sempre, ed i soldati del Duca, spalleggiati da un buon numero di locali armati di torce e forconi, tentarono di riconquistare la Garzaia per restituirla al Ducato ed alla civiltà. E magari impiccare qualcuno strada facendo, che quando ci scappa un morto un colpevole poi serve, e se non si può più difendere è anche meglio. Proprio quando la battaglia sembrava ormai vinta, il Nobiluomo in persona apparve nel bel mezzo della Garzaia. Sollevò la torcia che portava in mano, mostrandola agli uomini in arme che si fronteggiavano sull’argine. Poi, senza dire una parola, appiccò il fuoco.
Gettate le armi, amici e nemici si precipitarono a spegnere le fiamme, ma non ci fu nulla da fare ed in poche ore la Garzaia ed i suoi abitanti furono perduti per sempre. Al centro di un paesaggio infernale, tra alberi bruciati e tizzoni ardenti, sporchi, stremati, intossicati, gli uomini di entrambe le fazioni si guardarono intorno. Del motivo del contendere non era rimasto che un enorme, soffocante, mucchio di ceneri, con al suo centro, bruciata ed annerita ma ancora miracolosamente in piedi, un’unica grande quercia. Che, proprio mentre stavano ancora guardando, precipitò finalmente al suolo con uno schianto spaventoso che fece tremare il terreno tutto intorno e sollevò una densa e pesante nuvola di polvere e fumo. Quando l’aria tornò a schiarirsi, dove prima c’era l’albero adesso c’era un uomo. Solo che non era un uomo, era il Re del Bosco. Nessuno lo aveva più visto da secoli, da quelle parti. Ma tutti lo avevano riconosciuto subito, anche quelli che portavano una croce al collo o sullo scudo.
– Andatevene! – tuonò la sua voce, e chiunque la udì come fosse diretta proprio a lui. – Avete portato la morte e la distruzione tra i miei figli e per quanto è stato fatto ormai non c’è né rimedio né perdono. Andatevene, ora, ma prima sappiate che pongo sulle vostre spalle questo fardello: per tutti i secoli che verranno il bosco della Garzaia resterà di proprietà dei miei figli, e nessuno dei vostri accamperà su di esso diritto alcuno. Vi impongo di proteggere e conservare questa casa come se fosse la vostra, ma di non mettervi più piede. – Poi si rivolse chiaramente al Nobiluomo, che ormai si era reso conto conto dell’enormità del gesto compiuto. – I miei figli torneranno, ma tu sarai cieco a loro, e anche se sentirai le loro voci non li potrai più vedere. Tranne che nel giorno dell’anno di mezza primavera, quando dovrai radunare su quest’argine almeno dodici uomini dal cuore puro, che potranno ammirare la meraviglia che qui ha dimora e raccontarne agli uomini di buona volontà, così che l’impegno si rinnovi. Solo in quel giorno, e solo per la durata della giornata, anche tu vedrai ciò che hai perso per sempre. Andatevene tutti ora, e rammentate che se questo patto sarà spezzato nulla vi potrà salvare dalla mia furia. – L’aria tremò per un attimo, come investita da un’improvvisa vampa di calore, e al posto dell’uomo tornò ad esserci un moncone di tronco ardente. Che si sbriciolò senza un suono, crollando in braci. Gli uomini se ne andarono e la Grande Garzaia venne chiusa per sempre.
Ma se il vostro cuore è puro, o lo è almeno quello di coloro a cui vi accompagnate, per un giorno all’anno potete sperare di riuscire a visitarla.
Ma dovrete essere saldi nella vostra fede, perché nessuno da quelle parti rischierà di scatenare l’ira del Re del Bosco.
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La Garzaia Proibita by Fabrizio Burlone is licensed under a Creative Commons Attribuzione-Non commerciale-Non opere derivate 2.5 Italia License.
Illustrazione di Eugenio Bausola