Questa è solo una delle tante leggende a proposito che si raccontano nel Grande Nord.
Era tardi, anzi tardissimo. Affrettarsi non serviva a molto ormai, ma dava almeno l’impressione di poter recuperare. Il fatto è che l’estate era stata lunghissima, e l’autunno non aveva voluto essere da meno. Nei mesi in cui normalmente già si partiva per il sud, quest’anno i prati avevano rimesso i fiori e gli alberi le gemme. Beh, non tutti, ma parecchi. Arbusti e cespugli si erano riempiti di bacche, laghi e fiumi erano rimasti liberi e navigabili e il sole scaldava come in primavera. Sembrava primavera, in effetti.
Poi, di colpo, l’inverno era arrivato. Si erano svegliati una mattina e tutta la campagna era ricoperta di brina. Punto. Nel giro di qualche giorno gli alberi si erano spogliati, il ghiaccio aveva incominciato a formarsi qua e là lungo fossi e ruscelli e il terreno era diventato duro come il marmo. Chi si era fatto furbo era partito subito, ma molti altri avevano preferito tirarla in lungo. Tanto di cibo se ne trovava, si dicevano, e poi poteva anche essere una cosa passeggera. Naturalmente non lo era stata e, svuotate le dispense, piacesse o no ci si era dovuti avviare..
Mamma e papà Organetto erano ben equipaggiati per resistere all’inverno, non erano tra quelli che si spingevano molto a sud. Solo un po’, quando il cibo iniziava a scarseggiare. O quando si faceva lo Stormo, cioè ci si riuniva in gruppo a migliaia, a decine di migliaia, e ci si spostava tutti insieme. Così, per divertimento. Per vedere posti nuovi o per il piacere della compagnia.
Ora, però, avevano un problema. Si erano fatti tentare da quella lunga estate che sembrava non volere finire mai, e ora aspettavano una nidiata. Non ci voleva chissà quale ingegno per capire che i piccoli non se la sarebbero cavata, adesso. Allora avevano atteso il possibile e anche più, sperando in un miracolo, e poi si erano riempiti le borsotte con i semi e le granaglie che erano riusciti a trovare ed erano partiti.
All’inizio era andato tutto per il meglio. Man mando che si scendeva il clima si faceva meno rigido, gli alberi meno pelati. L’acqua era abbondante e sui cespugli erano rimaste ancora un bel po’ di bacche. Poi, il cielo sulle montagne a ovest si era fatto più cupo e l’aria si era riempita del profumo della neve. Si era alzato un vento gelido e potente che li aveva costretti a terra. Infine, la tormenta era iniziata. La neve era caduta per due giorni e due notti e quando alla fine il sole aveva rifatto capolino aveva illuminato un mondo completamente diverso. Il panorama era diventato uniformemente bianco e tutto intorno, a perdita d’occhio, non c’era segno di vita. Gli organetti, come si era detto, sono ben attrezzati per l’inverno. Non potrebbe essere diversamente, visto che vivono così a nord. O in montagna. Come è d’uso nella loro specie avevano subito scavato una specie di tunnel sotto la neve, e nel punto più riparato avevano allestito un piccolo dormitorio. In due, però, non ci si riusciva a scaldare più di tanto, e poi c’era sempre il problema della uova. Bisognava costruire un nido da qualche parte. Appena possibile papà Organetto volò fuori per vedere cosa si poteva fare. Il territorio negli immediati dintorni offriva poche possibilità. I rilievi, lì, erano troppo dolci per poter offrire un qualche rifugio degno di questo nome: niente anfratti, niente forre, niente brecce o caverne, niente. Arbusti e cespugli erano sepolti sotto alla neve. Nelle ore più calde ci si poteva anche arrivare, per raccogliere un po’ di cibo magari. Ma di farci un ricovero non c’era neanche da pensarci. Al di sopra svettavano perlopiù pioppi, betulle e larici, tutti spogli come da stagione. C’era però anche un certo numero di pini e di abeti, ed in potenza quelli sì che un riparo lo potevano offrire. Al momento erano anche loro coperti di neve, ma se il tempo avesse tenuto almeno per un po’... Papà Organetto tornò dalla compagna a dirle di tenere duro, che c’era da aspettare. E per farsi perdonare le portò anche una beccata di bacche di sorbo che aveva trovato appena fuori porta. Il giorno dopo nevicò ancora. Poi smise. Poi riprese. Papà Organetto continuava ad uscire e portare a casa del cibo, ma le notizie erano sempre le stesse: c’era da aspettare. Finchè di aspettare proprio non si potè più. In qualche modo papà Organetto era riuscito a costruire un nido a ridosso del tronco di un vecchio pino, anche un bel nido ad essere onesti: grande, solido, e anche caldo, per quel che si poteva fare. Era la posizione che proprio non andava. L’aveva appoggiato per forza di cose ad uno spigolo di neve ghiacciata, senza neppure poterlo ancorare. Meglio non veniva, e c’era già da esserne contenti. Mamma Organetto ci si trasferì in fetta e furia, e nel volgere di poche ore il nido si ritrovò affollato di ben quattro uova. E lì successe il patatrac. Forse quel po' di calore che per forza scappava attraverso la coppa aveva sciolto la neve. O magari era bastato quel filo di sole che riusciva filtrare attraverso le nuvole ad ammorbidirla di quel tanto che bastava. O forse era solo che tutto l'ambaradan era giusto appoggiato, senza ancoraggio. O niente di tutto questo, forse era stato solo uno scherzo del destino. Ma, di fatto, il nido aveva improvvisamente preso a muoversi. Anzi a scivolare. Dapprima lentamente, mentre papà cercava in qualche modo di trattenerlo sul posto. Poi aveva preso velocità, mentre mamma tentava almeno di rallentarne la corsa. Aveva ballonzolato su di una crosta di neve che per un istante sembrava averne bloccato il movimento, poi si era lanciato a tutta birra su di un lastrone che correva lungo tutto il ramo. Giunto all'orlo, lo aveva scavalcato con un saltino, senza pensarci due volte, ed era piombato verso il suolo come una pigna o un sasso.
Mamma Organetto restava distesa sui suoi futuri piccoli, pronta ad affrontare il loro destino qualunque esso fosse..
“Preso!” esclamò l'uomo afferrando al volo il nido che gli era quasi piovuto addosso. “E tu chi sei piccolino? Un lucherino? No, dovresti essere più giallino. Un fringuello? Mah, tutto marroncino così non direi. Una pispola? Un migliarino? Un passerotto? Aspetta che metto gli occhiali e.. Ma questo che vuole?”
Papà Organetto si era precipitato al salvataggio, aggredendo senza esitazione l'omaccione barbuto che aveva catturato la sua famiglia. Senza alcuna speranza di successo, ovviamente. Senonché..
“Un momento, un momento” reclamò quello. “Non ho brutte intenzioni, ma tu dammi un attimo di respiro, perbacco!”
L’uccelletto questa volta esitò. Anzi, si fermò proprio, senza nemmeno sapere il perchè. Il fatto era che la voce di quell’uomo sapeva.. beh, non è facile da spiegare.. Sapeva di buono, ecco. Gli ricordava la voce di suo Padre. Gli faceva venire in mente gli inverni in famiglia, con anche i Nonni, i Fratelli e i Cugini che ogni anno erano sempre di più. E quella volta che si erano fermati a svernare vicino al villaggio degli uomini. Tutte le notti le casette sui trespoli al limitare del bosco si riempivano magicamente di ogni ben di Dio. Semi, frutti, cose dolci e chi più ne ha più ne metta. Si arrivava al mattino ed era già tutto lì. In paese c’era anche stata una gran festa ad un certo punto, e tutti gli umani avevano mangiato e bevuto in abbondanza e poi si erano esibiti in canti e musica e forse danze, se danze si potevano chiamare quelle.. Gli ricordava tutte le cose belle e buone del mondo, specie quelle dell’Inverno e della Neve. Planò su un ramo lì vicino e si mise ad osservare il suo avversario: certo che era grosso, però. Tra barba, sopracciglia e capelli (tutti folti, tutti scarmigliati e tutti candidi) la faccia si vedeva appena. Si intuivano però un bel paio di guanciotte rubiconde e un sorriso cordiale, accattivante. La cocuzza terminava con un buffo berretto rosso, e rosso fuoco erano pure la giubba e i pantaloni da cui l’omone straripava in tutte le direzioni. In effetti non sembrava per nulla male intenzionato. Anzi. Improvvisamente, mentre stava ancora riflettendo sul da farsi, il ramo su cui si era posato si mosse, facendolo schizzare via dalla sua posizione..
“Rudolph ! Fermo! Donnola! Freccia! Ferme, ragazze!” ordinò l’uomo. “Non è il momento di fare i capricci, questo. E lasciate posare il nostro amico, così non si gela le zampette sulla neve”. Quindi, inforcati gli occhiali, riprese l’esame del nido e dei suoi occupanti. “Un organetto, perbacco! Certo che non siete facili da riconoscere, voialtri. Senza nessun segno distintivo, che so, una mascherina, una macchietta a contrasto.. Vabbè, ma che ci fate qui, adesso? E con le uova per giunta?”
Nel frattempo papà Organetto era tornato a posarsi sul ramo che si era invece rivelato essere una delle corna di una grossa renna dal naso rosso. Buffa. Mamma Organetto, dalla sua posizione poco privilegiata, osservava l’umano con un misto di timore e riconoscenza..
“Eh no, non va bene così” prosegui questi. “Non va bene affatto”. Detto ciò si guardò intorno e poi, presa una decisione, pescò un grosso sacco dalla slitta a cui le renne erano aggiogate e si diresse verso uno degli abeti lì nelle vicinanze. “Meno male che passavo da queste parti” raccontò alla sua involontaria passeggera. “Ci passo piuttosto spesso, a dire il vero. Con le renne, sapete? Devono fare esercizio di questa stagione, d'estate mettono sempre su un po’ di peso e non manca più molto a Natale, ormai.” Arrivati a destinazione l'uomo posò il nido sul sacco, mentre papà raggiungeva la comitiva posandosi lì accanto. “Adesso aspettatemi qui un secondo, ragazzi, che devo chiedere un favore ad un amico” dichiarò. Quindi si avvicinò all'abete, e per qualche istante sembrò confabulare con quello. Poi accadde una cosa strana, anzi due. In primo luogo l'abete abbassò i rami mentre la loro fisionomia sembrava in qualche modo “appiattirsi”. Poi la pianta ebbe un fremito, una via di mezzo tra un brivido e uno scrollone e la neve che la ricopriva si stacco di botto e venne scaraventa via tutto intorno. L'omone rossovestito si scosse via i fiocchi che gli erano finiti addosso, quindi osservò il lavoro finito con espressione soddisfatta. “Benebene” commentò. Prese nido e inquilini e lo posò su uno dei vassoi naturali che le fronde dell’albero avevano formato. Ci fu un leggero movimento di corteccia e rametti che sembrarono accomodarsi meglio intorno al nuovo oggetto, e questo fu quanto. “Benebene” continuò l’altro. “Da qui non si muove più. Adesso ci serve un po' di calore. Devo proprio avere qualche cosa nel sacco.” Tirò fuori una serie di portacandele colorati a forma di palla che prese ad appendere qua e là ai rami. Dopo averli assicurati con cura e averne controllato due volte la posizione, assestò un colpettino sul fondo di ciascuno e le candele all’interno magicamente si accesero. Da sole. “Così dovrebbe andare” commentò. Poi si avvicinò al nido. “Al resto ci dovete pensare voi. Immagino che tu sia in grado di trovare del cibo qui intorno..” domandò a papà Organetto, che annui vigorosamente. “Benebene. Ad ogni buon conto, per combinazione nel sacco devo avere anche qualche bastoncino dolce da lasciarvi. Ah, sì, eccoli. Ve li lego qua ai rametti. Sono al gusto di seme di betulla, dovrebbe piacervi, no?” Poi guardò mamma Organetto dritto negli occhi “Lascio tutto in mano sua, Signora. Viste le circostanze ho chiesto ai suoi piccoli di accelerare un tantino le cose, quindi si aspetti novità a breve. Intanto vi saluto, amici. Non dovessimo vederci prima, accettate i miei più sinceri auguri di Buon Natale e buona continuazione a Voi e Famiglia”. Detto questo si diresse verso la slitta, per fermarsi però a metà strada e tornare indietro. “Non preoccupatevi delle candele” rassicurò “sono quelle che uso io su al Polo e durano quanto la Notte Artica. E tra un paio di settimane farò comunque passare di qui a metter via tutto. Ma proprio per questo..” si interruppe, mettendosi a frugare nel sacco. “Trovato. E’ meglio che marchi l’amico Abete con qualcosa che sia ben visibile anche da lontano. Gli elfi possono essere incredibilmente distratti, quando vogliono. Ecco, questo dovrebbe andare.” L’oggetto in questione era un puntale di una trentina di centimetri di altezza, a forma di stella e dello stesso colore degli abiti dell’omone. Fece un cenno di invito all’Abete, che si piegò ponendo la sua vetta a portata di mano. In un attimo il puntale fu piazzato e l’albero potè riprendere la sua posizione. Come al solito l’uomo fece un passo indietro per ammirare il lavoro finito. La stella, in alto, scintillava alla luce del sole. Più di quanto ci si dovesse aspettare anche in pieno giorno. “Benebene, bella vero?” domandò rivolto ai nostri amici. “E di notte brilla anche di più, credo che restituisca in qualche modo la luce delle stelle. Ma non le faccio io queste cose, quindi non saprei.” Si assestò una sonora pacca sulla panza, a mo’ di punto esclamativo. “Benebene!” continuò. “Adesso debbo proprio andare. Saluti amici. E Buon Natale, ancora!” Per la seconda volta ritornò verso la slitta, e questa volta arrivò a destinazione e ci montò a sopra. Prese la frusta e la fece schioccare. “La uso solo per fare rumore, non temete” avvisò gli uccelletti. “Oplà, Cometa! Oplà Ballerina! Avanti, Saltarello! E’ ora di muoversi, avete riposato abbastanza! Avanti!” Fece schioccare un’altra volta la frusta e le renne si misero finalmente in moto. La slitta curvò verso un pendio immacolato e prese velocità in un lampo, anzi, meno. A metà della discesa Rudolph, che era quella con il naso rosso, la prima della fila, sembrò mancare un passo e posò una zampa nell’aria, nel niente. Sorprendentemente, la zampa fece presa e l’animale incominciò a salire su, verso il cielo. Le altre seguirono, trascinandosi dietro armi, bagagli e passeggero. La slitta volò un ampio semicerchio intorno all’Abete, mentre l’omone si sbracciava.
“Buon Natale, amici. Buon Natale!” augurò un ultima volta. Poi partì per la tangente, svanendo nel cielo del Grande Nord in poco più di un attimo.
Passarono alcuni giorni. La temperatura rimase rigida, e nevicò anche. Le candele funzionavano alla grande però, sciogliendo la neve man mano che tentava di accumularsi e mantenendo il corpo dell’Abete avvolto da un gradevole tepore. Di cibo se ne trovava (tra l’altro, i bastoncini alla betulla erano ottimi) e le uova sembravano non soffrire affatto della situazione. Anzi, come anticipato, parevano perfino in anticipo sui tempi, tant’è che un paio di volte a mamma Organetto era perfino sembrato vederle muovere. Date le circostanze, tutto andava come meglio non poteva, o quasi. Perché quella mattina era successo un fatto vagamente preoccupante. Niente di che, intendiamoci. Ma un tantino preoccupante lo era. A metà pomeriggio, appena lì sotto, era passato un tipo con un cane. Un umano intendo, con uno di quei cani che si vedono spesso correre appresso alle renne. Doveva venire dal villaggio giù in valle forse, c’era anche una specie di sentiero da quella parte. Il tipo era arrivato fino ai margini della radura, poi si era fermato a guardarsi intorno e aveva inevitabilmente notato il loro albero. Allora si era avvicinato, trattenendosi però a debita distanza mentre il Lapinporokoira si accostava ulteriormente per annusare. Aveva scrutato l’Abete in lungo e in largo per un po’, quindi aveva richiamato il cane e si era allontanato con una certa premura. La cosa avrebbe anche potuto finire lì, dopotutto.
Il sole era tramontato da un pezzo, ormai. Le giornate erano cortissime, ma anche così era evidente che doveva essere notte fonda, ormai. Mamma Organetto sonnecchiava inquieta, sentiva che il momento della schiusa si stava avvicinando. Giusto in quel istante l’uovo di destra si mosse, facendola sussultare. Fu proprio mentre stava cercando di rimettersi in posizione che notò la piccola striscia di fuoco che risaliva la vallata venendo nella loro direzione. Non era un incendio o un rogo di quelli che fanno paura anche da lontano. Sembrava piuttosto un a fila di piccole fiammelle che avanzavano insieme, ordinatamente, seguendo chissà quale percorso.
“Che sarà mai” domandò mamma Organetto, un tantino in apprensione.
“E chi lo sa? Comunque sta venendo da questa parte..”
“Speriamo che non ci veda”
“Non vederci? Ma se brilliamo come un faro nella notte?”
“Un faro? E che cos’è un faro?”
“Niente, fai conto una luce molto forte. Me ne ha parlato una volta un Gabbiano su al lago, grosso modo l’idea è quella. Non so perché, però non mi sembra una cosa pericolosa. Aspettiamo e vediamo..”
I minuti passarono, e la striscia di fuoco avvicinandosi si rivelò una breve processione di torce condotte da altrettanti portatori umani. Con loro, in quasi ugual numero, camminavano altri umani privi di illuminazione propria. Arrivati in prossimità dell’Abete questi ultimi avanzarono fin dentro al suo cerchio di luce, depositando qui gran parte carico che avevano portato. Frutta, dolci semi e bacche. E anche bottiglie, pacchi, statuette ed altri oggetti che i due Organetti non avrebbero saputo identificare neanche per tutti i semi di betulla del mondo. Poi, gli uomini arretrarono di qualche passo e posarono il resto del loro fardello, oggetti questa volta più facile da riconoscere: si trattava di candele, come quelle che aveva usato l’omone rosso, ma più grandi. E senza copertura. Quelli con le torce si fecero avanti e le accesero, quindi tutti quanti retrocedettero ulteriormente. Dopo un attimo, senza una ragione apparente, uno di loro si staccò dal gruppo ponendosi di fronte al semicerchio che gli altri avevano formato. Emise un suono rauco a cui tutto il gruppo sembrò in qualche modo rispondere. Poi sollevò le ali, pardon, le braccia, e tutti gli uomini, in coro, cominciarono a cantare. Era una canzone dolcissima, che raccontava di una notte silenziosa, una notte santa, una notte in cui gli angeli parlavano con i pastori e la pace sembrava essere scesa sulla terra per regnare per sempre.
“E’ il canto della nascita!” esclamò mamma Organetto, che se avesse potuto avere la pelle d’oca in quel momento l’avrebbe avuta. “Non sapevo che gli umani la conoscessero.. E bellissima.. ma che hai?”
“No, niente. Mi deve essere entrato qualcosa nell’occhio” rispose papà.
“Tenerone” continuò lei. “Meno male che non c’è nessuno che ti vede e.. oh. Ma.. Ma qui si muove tutto! E arrivata l’ora, papà. Proprio adesso.”
“Spostati, spostati. Fa vedere anche a me!” chiese lui, tutto eccitato.
Mamma organetto si spostò di lato. Una delle uova presentava già una puntura da becco e una piccola crepa. Con gli opportuni aiuti ed incoraggiamenti la natura seguì il suo corso, e in pochi minuti il mondo fu allietato dalla presenza di quattro nuovi Organetti. Intorno a loro gli umani cantavano altre, nuove, bellissime, melodie. Papà Organetto osservò i suoi cuccioli un tantino perplesso..
“Ma mi hai tradito con un ciuffolotto?” domandò alla sua compagna in tono di scherzo. Il fatto è che tutti i piccoli erano ornati da un vistoso ciuffo di piume scarlatte sulla sommità del capo, e due di loro avevano piume dello stesso colore anche sul petto.
“Magari viene via” azzardò lei strofinando la fronte dei piccoli con il becco.
“Che strano” prosegui lui. “Mi sembra la stessa tonalità di rosso che portava l’omone con le renne e..” improvvisamente ebbe un lampo di intuizione. Squadrò la sua compagna, e vide che anche lei era arrivata alla stessa conclusione. Nel vento, sopra il canto degli umani sembrò di sentire una voce.. “Adesso sì che siete facili da riconoscere, ragazzi. Per chiunque, o quasi.. Buon Natale. Buon Natale a tutti! Oh! Oh! Oh!”
“L’albero di Natale” by Fabrizio Burlone is licensed under a
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Illustrazione di Eugenio Bausola